Un violino siriano parla d’amore all’orecchio della guerra - Intervista ad Alaa Arsheed
E Ho sentito Alaa Arsheed suonare per la prima volta allo store Fornasetti e mi ha incantato. Mi ha trasportato lontano con i suoi suoni. Incuriosita dalla sua storia l’ho cercato per intervistarlo, e ascoltandolo ho capito che il suo parlare d’amore, sempre, non c’entra con l’ingenuità, ma con una storia che leggerete in seguito.
Di dove sei, Alaa?
“Sono nato a Swaida, una città al sud della Siria.”
Quando hai iniziato a suonare il violino?
“Ho iniziato a suonare a otto anni, con il fratello musicista di mio nonno. Lui mi ha messo un violino in mano, e mi sono appassionato.
Mio padre è figlio unico, tanto desiderato. E' arrivato dopo sette anni, come una specie di miracolo, per cui ha avuto l’attenzione e l’amore di tutti, senza essere stato protetto in eccesso né viziato."
Cosa suonavi da piccolo?
“Ho iniziato studiando musica classica, e col tempo la musica per me è diventata il modo di parlare quando non trovo le parole.
La mia memoria conserva il ricordo di due pezzi che suonavo da bambino, però poi io chiudo gli occhi e suono quello che mi arriva dalle mie emozioni. Se sei innamorato poi, di qualsiasi cosa o persona, l’amore rende la musica luminosa, brillante, e la gente l’adora.
Il violino è come una donna per me, vicino al mio cuore, sento la sua voce nel mio orecchio, e parlo con lei.
Mio fratello suona la viola.”
Una famiglia legata all’arte.
“Siamo quattro fratelli, io sono il maggiore. Ho un fratello e due sorelle, una dipinge e l’altra fa disegno, e suona il violoncello e il pianoforte.
Mio padre è un uomo di affari. Lavorava ad Abu Dhabi, ed è cresciuto tanto. Ma poi ha scelto di non continuare la sua carriera nel Regno Unito e di tornare in Siria, dove aprì la sua propria compagnia di prodotti di bellezza per le donne.
E’ un uomo d’affari ma adora l’arte.”
Come sei arrivato in Italia?
“Ho conosciuto Alessandro Gassman, a Beirut, e da lì sono stato invitato da Fabrica - Benetton per venire in Italia a incidere l’album Sham.”
Cosa significa Sham?
“Sham è un vecchio nome di Damasco, ma Sham è anche Sam, che è il nome di Noe. Damasco ha sette porte, una si chiama Saint Tomas, quella zona è una specie di Trastevere, antica e bella.
Ho fatto l’album in Fabbrica, ed è stato meraviglioso, ho conosciuto bellissime persone lì. Quest’album è stato come un viaggio per me, e a volte ne sento grande nostalgia.
Da lì ho conosciuto Barnaba Fornasetti, Gian Piero Masa e Roberto Copolecchia che è per me come un fratello maggiore, e abbiamo iniziato a fare degli arrangiamenti all’album, per renderlo più bello. Il loro tocco è stato prezioso, e suonando e provando insieme, sono venute fuori altre idee, e così è iniziato il nostro rapporto del quale mi sento molto fortunato.”
Parli sempre d’amore, venendo da una realtà così dolorosa, e legata alla guerra, come fai?
“Ti racconterò una storia, una storia vera:
Nel 2006, con quello che mio padre aveva risparmiato, ha avuto l’dea di aprire una galleria, con una bar artistico e una libreria, e chiamò quel luogo Alpha.
Alpha e una lettera potente, è l’inizio, e anche io ho registrato un brano Alpha, in Sham.
Alpha era un luogo gratuito dove gli artisti potevano esporsi, e così la gente della città iniziò ad avvicinarsi e apprezzare l’arte.
Attraverso l’arte tu puoi dare un messaggio, toccare il cuore delle persone, senza bisogno di parole.
Ogni mese c’era una mostra di un artista, incontri con filosofi, scrittori, pittori, musicisti.
Ma mio padre non aveva chiesto permesso al governo per aprire questo luogo, e il regime ci mandò una spia. Alpha era un luogo aperto a tutti, perciò anche lui è stato il benvenuto.
Veniva tutti i giorni, mangiava lì e ascoltava tutte le presentazioni, e ci passava sempre più tempo, fino a restare dal mattino alla sera, e arrivare chiedendo ‘cosa c’è oggi in programma, cosa c’è da mangiare?, come un amico.’”
L’avete conquistato, pancia e anima.
“Sì, ma non ha potuto riferire nessuna attività strana, perché non c’era. Diffondevamo solo arte. Fino al giorno nel quale, nel 2007, vennero e rovinarono il posto, distrussero dipinti, opere, libri.”
Il regime?
“Il regime, sì, ma anche gente che non capiva, o pensava che stessimo facendo resistenza.”
Tu eri lì?
“Io ero andato a vivere a Beirut a suonare, volevo continuare a crescere nella musica. Ma poi ricevo questa chiamata da mia madre dicendo che mio padre era stato arrestato.
Mi sembrava di essere in un film. Passavano i giorni e mia madre stava sempre peggio, era triste, si svegliava nella notte e mi parlava, a volte pensando che fossi mio padre.
Non sapevo cosa fare. Il luogo dove era mio padre non era facile da raggiungere ma ci sono andato. Non ero armato in nessun modo. Sono arrivato lì a piedi e mi hanno cacciato, malamente.
Allora sono tornato quella notte, camminando, e sono stato rifiutato ancora. Avrebbero potuto uccidermi, ma non potevo fare altro.
La terza volta che ho tentato, il giorno dopo, sono arrivato lì al mattino e ho detto alle guardie che avevo un’informazione importante, specifica, da dare al capo massimo, a voce e di persona.
Loro si sono consultati, dicevano che dicevo di avere un’informazione da dare, forse non era importante, ma se lo era? Allora mi hanno fatto entrare. In due mi hanno portato all’ufficio del presidente del posto.
Lui ha congedato le guarde e chiesto che chiudessero la porta. A me mancava il respiro, allora lui mi dice ‘avanti, cos'hai da dirmi?’
Ho preso coraggio, ormai ero lì disarmato con il capo massimo. Ho detto che la mia informazione importante era che c’era mia madre che stava molto male, era molto triste e non la vedevo in buone condizioni, e che avevo mio padre che era lì dentro. Che erano persone belle, e che mia madre peggiorava ogni giorno. Allora quando seppe mio nome, e chi era mio padre, mi disse che loro non sapevano che cosa stava pensando di fare mio padre. Allora gli spiegai che noi siamo gente di pace, che non abbiamo bisogno d'altro se non di pace, d'amore, e di fare arte, che anche se fosse brutta, non uccide nessuno.
Ho conversato con lui per un ora e mezza, abbiamo parlato della vita, e lui iniziò ad aprire il suo cuore, mi sembrava di aver trovato il bambino dentro di lui, mi ha parlato anche delle sue storie di amore. Poi mi salutò e mi mandò via.
Sono uscito da lì pensando cosa ho fatto, avevo solo quest'opportunità di fare qualcosa per mio padre e l’ho sprecata. Invece aveva funzionato. Io sono andato via subito, e a mio padre lo liberarono il giorno dopo.
Da lì il pensiero che ho maturato è che solo con l’amore possiamo cambiare le cose.”
E di questo parli con la tua musica.
“Io avevo un violino, la mia musica, il mio amore, il mio desiderio di pace. La musica mi ha salvato, e penso possa salvare anche altre persone, è come una porta da cuore a cuore.
I momenti migliori sono quelli spontanei, magari in strada quando mi sono messo a suonare con qualcuno, e la gente si è avvicinata, e si è creata quella condivisione speciale, di cuore.”
Se dovessi nominare una persona che t’ispira?
“Giles Duley. Lui è un reporter, una persona che ha perso un braccio in un campo minato, e non si è avvilito né incattivito, ma è tornato a lavorare con ancora più energia. Lui continua a combattere contro la guerra, con una mano, con la sua camera.
L’ho conosciuto a Beirut, dove sono andato a insegnare musica in un campo per rifugiati, con bambini molto piccoli e anche con ragazzi. E' bellissimo, ma è anche molto triste perché senti che hai dato loro un dono, e poi vai via e te lo porti mentre loro ti chiedono di restare, e ti chiedi cosa ne sarà di loro. Ti chiedi perché la guerra. L’essere umano è capace di un tale amore per il prossimo, che non riesci a capire.”
Cos’è per te l’oscurità?
“Per me l’oscurità è quando sei troppo focalizzato su di te e non sei soddisfatto di te stesso. Io sono stato lì. Ma io non sono un fanatico dell’identità. Noi siamo molto di più dei nomi, del luogo dove siamo nati, dell’opinione degli altri su di noi. Quando ricordiamo che siamo luce, e che abbiamo questo momento e nient'altro, la vita cambia senso, e tutto viene apprezzato, fuori dai nomi e dalle memorie di noi, fuori dagli obiettivi, siamo anche quello, ma siamo di più.
La vita e l’amore sono in noi, dentro di noi, sempre. Sono quello che c'ispira, c'illumina, per trovare il senso della nostra vita, per trovarci, condividere, e nutrirci gli uni agli altri.
E l’oscurità è per me è la notte, il momento in cui tutto si ferma e c’è il silenzio, il silenzio bello che è la musica. Pensa Beethoven che ha scritto la madre di tutte le musiche, la nona, nel silenzio della sua testa, quando era già sordo.
Il silenzio, legato alla solitudine poi… solo lì c’è la possibilità di capire qualcosa su di noi, di parlare con noi stessi.
E’ la paura la cosa che non va bene. Ti chiude, ti mette contro gli altri.”