Università e scuole: quando inclusione fa rima con polarizzazione
Il dibattito si infiamma sulle proteste degli studenti universitari e l’inclusione, ieri per le vicende di Pioltello, poi Gaza, domani ci sarà un nuovo terreno di scontro. E di polemica in polemica aumentano solo ignoranza e rabbia anziché desiderio di sapere e approfondimento
I casi di queste settimane, se si parla di scuola, riguardano l’inclusione culturale e religiosa: prima la questione del Ramadan e la chiusura della scuola di Pioltello, nel milanese, da lì la polemica sulle percentuali di stranieri in classe, a cui è seguita la polemica sul numero di studenti con certificazioni di disturbo per classe, infine la protesta negli atenei per la chiusura non accordata seguendo l’esempio-precedente di Pioltello. Quante discussioni, quante pagine, quanti tweet: quanta fuffa! Poca conoscenza delle questioni, innanzitutto: chi sa come e quando si redige un calendario scolastico di istituto e chi si è informato prima di parlarne? chi sa cosa si intenda per inclusione in una classe? chi ha una soluzione concreta al numero di stranieri per classe, a fronte dei dati reali di alcuni distretti?
Sono domande che inchiodano, perché le tante opinioni sono state date di pancia, in reazione ad altro, per compiacere, per criticare. La questione dell’inclusione, poiché di questo si parla nello specifico, è delicatissima, riguarda la vita quotidiana delle persone e spesso si risolve nel piccolo più che nel grande ambiente. Inoltre, oltre a essere una questione decisiva dal punto di vista sociale, è anche un argomento spinoso da trattare e, mutuando le parole del cantautore Brunori, a toccare il tema dell’inclusione si rischia di passare “per l’uomo del Tremila o per l’uomo primordiale” appena di entra nella questione, un po’ perché la tematica è appunto complessa, un po’ perché il sistema di informazione vuole sempre stereotipare e polarizzare ogni posizione, un po’ perché non c’è un reale interesse alla profondità che, talvolta, può proporre conclusioni provvisorie, ibride, incerte.
Inclusione, quindi Ramadan e festività scolastiche, ma anche Israele e Palestina, patriarcato, femminicidio: queste sono solo alcune tra le parole che, a intervalli regolari o in pianta stabile, in questi mesi occupano le pagine dei giornali, quindi le bacheche di tutti i social e di conseguenza, essendo di interesse popolare, anche i dibattiti televisivi e quelli nelle varie sedi politiche e istituzionali.
Le questioni nascono in piazza, o per un intervento su X – il nuovo nome di Twitter – di un esponente politico poi rilanciato da detrattori o sostenitori, o per un fatto grave per cui tutti si sentono in dovere di commentare senza dimenticare mai, nel cordoglio del caso, di scagliare una frecciatina o di definire il proprio perimetro etico, morale, politico. Tutto sempre a misura di parole, di slogan e di buoni propositi, non certo di fatti.
Sì perché i fatti avrebbero bisogno di proposte a medio e lungo termine, e per questo tipo di risoluzioni serve studiare e non sguardare, conoscere e non affidarsi a sintesi, leggere ampliando orizzonti critici e non limitarsi a una riepiloghi di un articolo di giornale, o di un libro – anche valido – di chi la pensa esattamente come si vuole.
Proprio così, la politica segue e insegue le questioni territoriali, nazionali e internazionali con i toni utili per una condivisione sui social, o per un titolo in bella vista su giornali e riviste sempre meno acquistati e quindi anche loro in cerca di lettori affamati di polemica, assetati di contenuti che aumentino la polarizzazione e non certo il confronto e il dubbio. Anche gli interventi in Parlamento spesso presentano un crescendo retorico studiato – questo sì, studiato! - per la condivisione sulle piattaforme digitali, con tanto di tempi adatti al taglio clip probabilmente studiati dal SSM – si lascia l’acronimo per la mostruosità della cosa – di turno. Un intervento in parlamento pianificato dal social media manager: siamo a questo punto, con buona pace dei padri costituenti e non solo loro.
Il panorama potrebbe (dovrebbe!) essere migliore, invece ci troviamo in questo “panpopulismo” in cui tutto è detto per un alalà dei propri sostenitori a discapito di chi sta dall’altra parte. Sulla scuola, e non solo, interagire così garantisce che il contributo al dialogo sia costantemente non pervenuto.