Urbano Cairo "for President"
Storia dell'uomo che vorrebbe scendere in politica, come il suo mentore, Silvio Berlusconi
La prosecuzione dell’Austerity con altri mezzi. Molti mezzi. E soprattutto non con l’espressione da cappellano del cimitero, ma con il nasone e il ciuffone sorridenti. Come un venditore capace di rifilarti una cucina componibile dopo un after-hours sulla Riviera romagnola. E poi il giaccone blu sportivo, che va bene su tutto, con sciarpa annodata da bambino con la tosse, al posto del bigio loden da professore. Il nuovo Mario Monti della politica italiana, l’uomo che dovrebbe rimettere in ordine i conti e ricacciare i Cinque stelle all’opposizione, imbrigliando Matteo Salvini in un europeismo di maniera e bene intonato ai famosi mercati, potrebbe essere Urbano Cairo, proprietario de La7 e del Torino calcio. Ma soprattutto augusto tenutario di Rcs Mediagroup, il colosso dai piedi di argilla che edita il Corriere della Sera e la Gazzetta dello Sport e che le banche creditrici gli hanno affidato nell’estate del 2016, stufe com’erano di perder soldi con editori più blasonati ma incapaci. E adesso, i creditori dell’Italia, e del suo maxi-debito pubblico da oltre 2.300 miliardi di euro, sono pronti a mettergli in mano direttamente la nazione, fidandosi delle sue mitologiche cesoie.
Ma Cairo, alessandrino, 61 anni, nato e cresciuto con il mito di Silvio Berlusconi, può sottrarsi a questo climax ascendente pubblicità-televisione-calcio-editoria-politica? Non può più. Si è dato due anni per la personale «discesa in campo», perché da pianificatore di campagne gli piacciono le cose fatte bene. Da mesi appare e riappare sui propri giornali a getto continuo. E si fa testare e misurare dai suoi uomini di marketing, per capire quanto può valere in termini elettorali. Rilevazione che riservatamente anche Berlusconi ha fatto fare nelle ultime settimane. Tuttavia, sa che il punto non è questo. Uno che ha messo quell’occhio stilizzato nel simbolo del proprio impero da 1,3 miliardi di euro sa perfettamente che il pensiero politico, se c’è, va comunque semplificato e i punti di vista si possono invertire da una parte all’altra come l’occhio delle telecamere.
«Cairo ormai è ovunque, aspetta solo che Berlusconi crolli alle Europee e poi si offrirà come nuovo capo del centrodestra», dicono dalle parti della Casaleggio e associati. E lo stesso presagio attraversa la fronte spaziosa di Nicola Zingaretti, nuovo segretario del Pd, preoccupato di dover fronteggiare anche un Cavaliere reloaded. Del resto, a Roma, tutti sono convinti che alla fine sarà lo stesso Berlusconi a incoronare Cairo con l’immancabile «l’ho inventato io». Che poi, questa volta, sarebbe anche abbastanza vero. Lo ha anche licenziato, però.
A 24 anni, nel 1981, il giovane Urbano si era fatto assumere come suo assistente e nel 1984 aveva addirittura badato a una giovane Veronica Lario, incinta di Barbara Berlusconi, e nascosta tipo Lucia Mondella nella palazzina Fininvest di via Rovani, a Milano (a pochi metri dalla quale, ovviamente, il Cairo di oggi si è comprato casa). Poi era stato mandato a lavorare in Publitalia, dove si era dimostrato un giovanotto svelto. Troppo svelto per i gusti di uno come Marcello Dell’Utri, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. E nel 1993, quando esplode Mani pulite e la Procura di Milano indaga i vertici Fininvest per false fatturazioni, Urbanetto, come lo chiamano ancora ad Arcore, si muove con deplorata autonomia. La Finanza gli becca una società dove ha piazzato mezza famiglia e che avrebbe intermediato un bel po’ di raccolta pubblicitaria destinata alle reti Mediaset. Cairo si sceglie un avvocato con il cervello, è giovane, non fa la vittima dei «giudici comunisti» e patteggia una condanna a 19 mesi per falso in bilancio, che dopo cinque anni gli sparisce dalla fedina penale. Il Cavaliere lo licenzia, perché Dell’Utri glielo chiede, ma subito fioriscono le leggende nere. Che in sostanza sono due: sarebbe stato messo alla porta perché Publitalia ignorava quella sua società di famiglia; oppure è stato fatto fuori perché ha osato rompere il fronte comune contro i pm.
Ventisei anni dopo che cosa resta di tutto ciò? Resta che Berlusconi ha visto la crescita del suo ex pupillo e ne va fiero. Cairo gli telefona spesso e parlano un po’ di tutto, politica compresa. Del resto l’allievo non troverà pace finché non avrà fatto tutto quello che ha fatto il suo Maestro. E che cosa gli manca, anche se Andrea Belotti non è Marco Van Basten, La7 non è Mediaset e questa Rcs non è la Mondadori? Gli mancano la politica e il picchetto d’onore mentre sale al Quirinale.
Da inizio anno, il prossimo Unto delle Banche è stato gratificato di citazioni e ricche foto dal Corriere della Sera per ben 51 volte, ovvero più di una volta ogni due giorni. Per fare un parallelo, per trovare una foto di Francesco Gaetano Caltagirone sul suo Messaggero bisogna che in Via del Tritone vadano in visita minimo Sergio Mattarella e Papa Bergoglio. Se invece mettiamo il contatore dall’estate 2016, ovvero da quando Intesa Sanpaolo, per volontà di Giovanni Bazoli, Carlo Messina e Gaetano Miccichè gli ha messo in tasca le chiavi di quel che restava di via Solferino, il nome di Cairo è comparso per ben 554 volte (vedere grafico a pagina 14). E da un mese, il presidente Rcs, con la scusa di incontrare i lettori e spingere l’inserto Buone notizie, sta girando l’Italia, da Trento a Lamezia Terme, da Torino a Bologna e Palermo. Una buona palestra per tastare il polso alle piazze e diventare un pochino più spigliato.
Cairo è «editore puro» per necessità. La sua grande astuzia è blindare i contratti in scadenza della propria concessionaria, la Cairo Pubblicità, a costo di comprarsi la società di cui è fornitore. Se fosse suo cliente, si comprerebbe perfino l’Asahi Shinbun di Tokyo. Il capolavoro però lo fa con La7, nel marzo del 2013, quando si porta a casa l’emittente tv per un milioncino di euro da Telecom Italia, con tanto di dote da 88 milioni che, secondo i dipendenti, non avrebbe mai speso nella tv. L’allora responsabile media di Telecom, Giovanni Stella, voleva venderla senza prima rinnovare il contratto a Cairo, perché sapeva che gli altri pretendenti sarebbero scappati a gambe levate. Ma poi prevale la linea di Franco Bernabè e alla fine Cairo si porta a casa l’intero piatto. Il contratto con Cairo Pubblicità scade quest’anno e il suo rinnovo a «valore di mercato» sarà una sciarada come il costo del Tav.
Ma che padrone di tv è Urbano Cairo? Assai capace, e non solo per i conti in ordine. Ha saputo sfruttare le nicchie che il famoso duopolio Rai-Mediaset, contro il quale mai tuonò, gli ha graziosamente lasciato. Ovvero, si è dimostrato capace di fare un’informazione di qualità, coccolando le sue star come Enrico Mentana e Lilli Gruber, del cui fiuto politico è innamorato, andando a fare tutto quel lavoro che la Rai non vuole o non sa fare. Mentre come uomo di marketing ha occupato la nicchia di raccolta pubblicitaria che Mediaset e le pallide norme Antitrust gli hanno concesso. Che editore sarà da politico, è presto per dirlo. Ma basta vedere il recente scatenamento di Giovanni Floris sui conti pubblici per capire che Cairo è pronto ad abbandonare i vecchi equilibrismi da imprenditore che, se gli parlavi di politica, letteralmente si addormentava.
Va detto, che se Berlusconi è il suo mito, Cairo non ha al proprio fianco uomini del livello di Fedele Confalonieri, Gianni Letta o Ennio Doris. Urbanetto è fondamentalmente un autocrate, non solo per risparmiare a fine mese su paghe e contributi. Il manager più brillante e spendibile all’esterno è ritenuto Uberto Fornara, a.d. della Cairo communications, che lo ha seguito da Publitalia e ha scalato tutte le gerarchie. Cairo se ne fida ciecamente e pare che siano proprio gli uomini di Fornara, con grandissima discrezione, a seguire l’andamento del Principale nei sondaggi. Anche se coltiva insospettabili rapporti con Roberto Weber, della «rossa» Swg. Cairo, poi, si appoggia molto anche al più anziano Giuseppe Ferrauto, palermitano, 66 anni, storico d.g. del gruppo e bravissimo nel tenere a stecchetto le redazioni. L’unico vero freno alle ambizioni politiche, del resto, è il conflitto d’interessi. A chi lascerebbe il suo polo un accentratore del genere? Sarebbe disposto a rimetterci anche un solo centesimo?
La parsimonia, del resto, è il carattere distintivo della ditta, anche in un mondo allergico alla disciplina di bilancio come quello pallonaro. Il Toro, dopo lo scudetto del 1976 e la morte di Orfeo Pianelli, ha visto un’imbarazzante sequela di bancarottieri, cortigiani degli Agnelli o tutte due le cose insieme. Cairo è diverso. Grande «innamorato» dei colori granata, rilevati praticamente dal fallimento nell’estate del 2005, tiene i bilanci in ordine, a costo di vendere ogni anno il giovanotto più pregiato. E continua a controllare le fatture in modo ossessivo. Come quella volta che il d.g. granata, Antonio Comi, fece ripristinare al volo il prato del campo dove doveva allenarsi la prima squadra e spese qualche decina di euro di troppo. Quando Cairo vide il conto chiamò il povero Comi e gli disse: «Il giardino della mia villa è più grande del campo, ma io il giardiniere lo pago meno. D’ora in poi chi spende di più, poi ci rimette la differenza». Ecco, Cairo è simpatico e capace, ma se gli italiani diventeranno i suoi fornitori sono avvertiti: paga quanto e quando dice lui. E il prossimo giardiniere che ci manderanno, parlerà tedesco.
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