Qui le mamme sono tutte in affitto
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Qui le mamme sono tutte in affitto

Spinte dai soldi (pochi per noi, tantissimi per loro) vanno in una clinica chiamata del "grande desiderio". Da ogni angolo del mondo tante coppie vengono qui, in India, a scegliere una madre surrogata

di Marta Ghelma

Diventare genitori a tutti i costi. O quasi. Per le coppie che desiderano un figlio, ma non possono affrontare una gravidanza, il ricorso all’utero in affitto rappresenta forse l’ultima, più estrema e controversa sfida medica e legale. Vietata in Italia, dove la surrogazione di maternità costituisce una pratica preclusa dalla legge 40 contenente le norme in materia di procreazione medicalmente assistita, la genitorialità genetica è invece riconosciuta in altri paesi come gli Stati Uniti, il Canada, la Spagna, l’Ucraina e la Russia.

L’ingresso dell’India nel fruttuoso business del cosiddetto "turismo procreativo", un giro d’affari che nel solo subcontinente è stimato intorno ai 2,3 miliardi di dollari all’anno, fa leva sul bisogno. Di soldi, per quelle donne che, dopo nove mesi di indiscutibile sacrificio fisico ed emotivo, ricevono un compenso equivalente a dieci anni di lavoro, ovvero circa 4 mila dollari. E di famiglia, per chi è disposto a ricorrere alla fecondazione di una madre surrogata, con seme e ovuli propri o provenienti da donatori e donatrici tramite concepimento in vitro.

Un trattamento non poco controverso che, in una nazione già puntualmente definita come "la culla del mondo", ha un prezzo che si aggira intorno ai 30 mila dollari, cioè meno di un terzo rispetto alle ingenti cifre richieste negli States. Ne sa qualcosa Nayna Patel, fondatrice dell’Akanksha Infertility Clinic di Anand, la piccola ma efficente "clinica del grande desiderio" sorta nel 2004 in un’anonima e caotica cittadina dello stato indiano del Gujarat. L’energica dottoressa, portata alla ribalta internazionale dopo essere stata ospite di Oprah Winfrey, ha già visto nascere ben 769 bambini con la tecnica della maternità surrogata. I 571 aspiranti genitori provenienti da 42 paesi diversi (la clinica è off limit per single e coppie omosessuali) sono poi così ripartiti: 164 residenti in India, 195 emigrati indiani e 212 stranieri. Tra di loro non c’è nessun passaporto italiano. "Riceviamo sempre più richieste dal vostro Paese" commenta Patel. "Purtroppo non possiamo accettarle per i gravi problemi di riconoscimento anagrafico che sorgono al rientro in Italia dei neonati". Nel caso di una sentenza di condanna per il reato di alterazione di stato civile, in effetti, la coppia di turisti procreativi rischierebbe dai cinque ai 15 anni di carcere. "A chi punta il dito contro il mio lavoro contrapponendo alla pratica dell’utero in affitto questioni etiche o economiche rispondo che non c’è alcun motivo di criticare la bontà di questo importante traguardo tecnologico. Negare la possibilità di diventare madre, quando di fatto la scienza ormai lo consente, equivale a impedire a un malato di cancro di accedere alle cure mediche".

Fu la storia di una nonna-mamma indiana che, per carenza di fondi economici e mancanza di uteri disponibili, decise di prestare il proprio alla figlia emigrata in Gran Bretagna, il primo caso a far riflettere la dottoressa Patel sulle enormi proporzioni dell’"akanksha", il grande desiderio in lingua gujarati. Il costante aumento dell’infertilità di coppia, il conseguente proliferare della domanda di gestanti d’appoggio e l’ampia fascia di disperazione raggiunta dagli strati più poveri dell’India è il resto della storia. Kelly McKee, 41 anni del Colorado, ha da poco varcato la soglia dell’Akanksha Infertility Clinic per sottoporsi all’estrazione degli ovuli. "Resterò qui per circa un mese con mio marito John. Poi ci vorranno altri 30 giorni per sapere se è andato tutto a buon fine" riferisce la donna. "Io invece sono venuta da sola e tornerò a New York solo dopo la nascita del mio bambino" le fa eco l’afroamericana Linda Remy. Al vicino hotel Rama Residency, diventato in pochi anni l’indirizzo temporaneo delle coppie in cerca di un figlio, c’è chi si trattiene soltanto il tempo necessario per le cure e chi si ferma per "vivere" l’intera gravidanza accanto alle gestanti. Certo è che queste ultime, sistemate in un edifico a due piani adiacente all’Akanksha chiamato "house of surrogate", vi restano dall’apertura della pratica medica fino a un mese prima del parto. Rigorosamente cesareo, perché le nascite devono essere programmate in modo tale che i futuri genitori possano presenziare con certezza (quasi) matematica al lieto evento. "All’inizio le ragazze trascorrevano la gravidanza nei loro villaggi" racconta Patel. "Ma ci siamo resi conto che il loro profondo stato di indigenza avrebbe inciso sulla salute del nascituro. Mi riferisco a malnutrizione, lavori pesanti, carenza di igiene, talvolta anche violenza".

La famiglia di Rekha, 27 anni, incinta di 6 mesi alla sua seconda maternità surrogata, ogni domenica fa visita alla clinica di Anand percorrendo a piedi i 30 chilometri che la separano dalla casa d’origine. "La nostra bambina ha solo tre anni e sua madre vive lontano da noi, ma ci servono i soldi per comprare una casa e per farla studiare" commenta il marito. Lì accanto, Gemayel, Salma, Shabanu e le altre madri surrogate provenienti dalle località più lontane trascorrono il tempo scrivendo sms, pregando e partecipando a laboratori di cucina, informatica, inglese o sartoria. "Superata la metà della gravidanza" spiega Aspita "la dottoressa Patel celebra una cerimonia di augurio per i bimbi che portiamo in grembo. Ci vestiamo con i sari più belli, ci trucchiamo gli occhi con il kajal e a ciascuna ragazza viene assegnato un nuovo nome. Tra una settimana mi chiameranno tutte Latika".

Nonostante le regole della clinica prevedano che le ragazze possano partorire per procura al massimo tre volte e debbano avere tra i 21 e i 35 anni e già almeno un figlio naturale, il distacco psicologico tra la partoriente e il nascituro resta ancora un gap difficile da affrontare. "Gli acquirenti sono una coppia di brasiliani" commenta con aria rassegnata Dariya mentre dalla sala parto escono due gemelli. "Il mio bambino avrà invece un papà e una mamma giapponesi" dice un’altra. Strano? No, rispondono in coro le ragazze. Ad Anand sembrano tutti felici: i neogenitori con i figli, le donne indiane con in tasca la dote per la famiglia e la dottoressa Patel per il capitale economico e "umano" dalla clinica. "Abbiamo già una bimba di 2 anni nata all’Akanksha Infertility Clinic" confessano i coniugi Dalal, expat indiani a Dubai. "Ora siamo tornati per avere un secondo figlio. Per noi è anche importante, finché sarà possibile, mantenere un rapporto con le ragazze. Non sappiamo se sarà un maschio o una femmina: in India, la pratica della determinazione prenatale del sesso è vietata". E se qualcuno sollevasse dei dubbi di carattere religioso sulla pratica, Patel ha la risposta pronta. "Fu proprio Lord Krishna il primo figlio della maternità surrogata". Le divine melodie del flauto di Krishna suonano anche per i bambini di Akanksha.

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