Alla roulette dei vaccini
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Alla roulette dei vaccini

Covid e influenza, prima di tutto. Ma poi herpes, polmoniti e tante altre patologie da virus e batteri. Con l’autunno è iniziata la corsa alle immunizzazioni, anche se cresce il numero degli italiani che dicono di no, spesso per paura degli effetti avversi sperimentati durante la pandemia. Ma allora vale la pena di fare l’iniezione? E quando? Facciamo chiarezza

Autunno, andiamo: è tempo di vaccini. L’arrivo della stagione fredda rilancia l’annoso dibattito: mi vaccino o no? Contro l’influenza o anche il Covid? Pure quello per l’herpes zoster e l’anti-pneumococco, o non faccio proprio nulla, affidandomi alla buona sorte?La confusione regna sovrana. Tra medici di base troppo (o troppo poco) zelanti, che pensano di bersagliarci di punture come fossimo in piena epidemia, o al contrario non ti vaccinano nemmeno se li implori, tra campagne mediatiche che spesso sembrano orientate solo a compiacere Big Pharma e virologi sempre in tv a dire tutto e il contrario di tutto, prendere decisioni consapevoli è complicato. Con lo spauracchio della nuovissima variante del coronavirus, la Xec, che oltre a tutti i sintomi che già conosciamo aggiunge perdita di appetito e diarrea. E ci sarà pure un evento di massa quale il Giubileo di dicembre, che porterà in Italia decine di milioni di persone, un’occasione in più per moltiplicazione e diffusione di virus e patologie.A parte gli «entusiasti», pronti a offrire il braccio appena si può e gli scettici, ovvero tra gli ipocondriaci e quelli che «aspetto, tanto poi passa», c’è una terza possibilità: capire razionalmente come procedere, se e quali vaccini fare, quando e, soprattutto, soppesare rischi e benefici.

In questo mare magnum di dubbi abbiamo una certezza: lo scorso inverno tra Covid, virus respiratorio sinciziale, polmoniti e influenza stagionale - dovuta prevalentemente alla variante H1N1- l’Italia ha contato quasi 15 milioni di casi, con un picco tra Natale e Capodanno e un’onda lunga di malati che è arrivata fino a Pasqua. Oltre a dolori, febbre alta e vacanze rovinate, il costo economico e sociale (assenze dal lavoro, servizi essenziali in sofferenza, ospedali con pochi medici e Pronto soccorso intasati) è stato enorme: i dati elaborati dalla Società italiana di pneumologia quantificano l’esborso economico che ogni anno si riversa sulle famiglie e sullo Stato in più di 10 miliardi di euro. Un’intera manovra economica che se ne va nella cura delle sindromi simil-influenzali: la gran parte di questi soldi (oltre otto miliardi, circa 250 euro a famiglia) vengono spesi dai cittadini, il resto dal Servizio sanitario (più di due miliardi, 62 euro in media per ogni malato). Riguardo all’influenza, quest’anno i dati che arrivano dall’Australia, dove l’inverno è già agli sgoccioli, parlano di un’infezione ancora più pesante: la variante predominante sarà la H3N2, probabilmente causerà più casi dell’anno scorso e forse anche più gravi, e questo fa sì che ci aspettiamo la seconda stagione peggiore degli ultimi otto anni: «La campagna di immunizzazione l’anno scorso non è andata bene, si è vaccinato contro l’influenza solo il 53,2 per cento degli ultra-65enni, mentre negli anni precedenti l’adesione era superiore» spiega Roberta Siliquini, presidente della Società italiana d’igiene, medicina preventiva e sanità pubblica. «Riscontriamo sempre più spesso elementi di preoccupazione e disaffezione nei confronti dei vaccini. È opportuno portare avanti campagne comunicative efficaci, per spiegare che l’antinfluenzale va ripetuto ogni anno perché i virus cambiano, e occorre organizzare l’attività dei medici di famiglia e degli ambulatori per far sì che i vaccini arrivino in tempo utile e in numero adeguato: possibilmente assieme a quelli contro il Covid, in modo che il paziente possa andare una volta sola dal medico e farli entrambi».

Il Covid, appunto: e qui arriviamo alle dolenti note. Il vaccino disponibile in Italia è aggiornato alla variante JN.1, che ha causato la maggior parte delle infezioni nei primi mesi del 2024, mentre oggi prevalgono i ceppi KP.2, KP.3 ed è appunto in arrivo il nuovo Xec.Gli Stati Uniti hanno già l’aggiornamento e stanno iniziando la campagna autunnale con il vaccino diretto verso le varianti attuali. E se è vero che JN.1 è il ceppo madre dal quale si diramano i «discendenti», dobbiamo comunque ammettere che noi non abbiamo a disposizione l’ultimo «upgrade». Inoltre, per chi ha già fatto le canoniche tre dosi (o anche di più) il dibattito se continuare o meno con i sieri di mantenimento è acceso, anche all’interno della comunità dei virologi.«Le linee guida ministeriali lo raccomandano a tutti gli ultra-60enni, donne in gravidanza e in allattamento e fragili, oltre a “caregiver”, medici, lavoratori essenziali» dice Francesco Broccolo, virologo e microbiologo, professore associato all’Università del Salento. «Io però, in coscienza, reputo inopportuno per la popolazione generale, in buona salute, vaccinarsi ancora contro il Covid. Questo perché circa il 90 per cento degli ultra 60enni ha fatto almeno tre dosi, oltre a una media di due o più infezioni naturali, quindi siamo per la stragrande maggioranza già immunizzati: magari ci ammaleremo ancora, ma non gravemente. Ricordiamo che nella storia della vaccinologia non si è mai arrivati a un numero così alto di “booster”: questo solleva il rischio di incorrere nel fenomeno della “tolleranza immunitaria”, dove l’antigene, cioè la proteina Spike, potrebbe non essere più riconosciuto come estraneo dal sistema immunitario, ma come parte del “self”. Se in ogni caso si vuole fare il richiamo, che siano passati almeno sei mesi dall’ultimo, o dall’infezione naturale».Nel dibattito si inserisce anche Matteo Bassetti, direttore della Clinica malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova, che dal suo osservatorio privilegiato è molto diretto: «Perché dovremmo vaccinare, oggi, contro il Covid, un 65enne sano che magari negli ultimi anni ha fatto quattro volte l’infezione e ha prodotto anticorpi? Noi che facciamo i medici davvero, in corsia, ormai vediamo infezioni gravi solo negli ultra ottantenni, perché hanno immunosenescenza (cioè gli anticorpi che tendono a diminuire molto velocemente, ndr) e nei grandi immunodepressi come i pazienti oncologici in trattamento chemioterapico o i trapiantati. Negli ultimi due anni non ho ricoverato per Covid praticamente nessun 65enne, perché dovrei consigliargli il vaccino? Senza contare il fatto che già nel 2022 e 2023 abbiamo acquistato un numero spropositato di fiale che poi abbiamo dovuto buttare: è il momento di essere realisti e razionali».C’è poi uno studio inglese, appena pubblicato sulla rivista Science Direct, che analizza il rapporto tra mortalità e vaccino Covid negli anziani delle Rsa della Gran Bretagna: i ricercatori hanno dimostrato che l’efficacia delle quarte dosi non è stata alta come previsto (e sperato), e chiariscono che «Gli effetti del booster potrebbero essere stati sopravvalutati, soprattutto in coloro che già erano stati immunizzati in seguito al primo contagio»: l’effetto positivo del vaccino, quindi, avrebbe funzionato fino alla fine del 2021 per poi calare drasticamente.

A riprova di quanto affermato da Bassetti, dai Pronto soccorso arrivano conferme: in un grande ospedale del Sud (dove le temperature sono ancora alte e non si è quindi in fase di picco) ci dicono che nel reparto di emergenza-urgenza c’è già un focolaio Covid con otto pazienti positivi su 22 (tutti fragili o grandi anziani), ma «off the record», molti primari confessano di temere quasi più l’influenza H3N2 in arrivo tra novembre e dicembre, che il «vecchio» coronavirus.Senza contare il fatto che la protezione dura troppo poco, solo pochi mesi: cambierebbe qualcosa se la ricerca si orientasse verso target diversi dalla proteina Spike? Magari sì, ma al momento non ci sono studi avanzati, perché questa componente del virus è la più esposta all’esterno e gli anticorpi riconoscono quella: così è sempre su di essa che si concentrano gli sforzi dei ricercatori.Continuando con il nostro calendario vaccinale, tutt’altra storia è quello contro l’herpes zoster, virus che ha colpito non solo gli anziani ma praticamente alla cieca, e che non è da sottovalutare perché se non viene riconosciuto in tempo si rivela molto pericoloso. «Lo zoster è oggi estremamente diffuso» afferma Fabrizio Pregliasco, virologo e direttore sanitario dell’Irccs ospedale Galeazzi S. Ambrogio di Milano. «Può dare complicanze neurologiche, nevralgia post erpetica, arreca dolori fortissimi soprattutto se colpisce il trigemino, tanto che i malati arrivano a chiedere di “farsi togliere” l’occhio. Abbiamo però un vaccino efficace, consigliato dai 50 anni e fortemente raccomandato dai 65 in su. È un farmaco molto ben consolidato, un vaccino ricombinante in due dosi con un profilo tranquillo che non dà eventi avversi, mentre quello usato in precedenza era “vivo attenuato”, assai costoso, e poteva dare reazioni anche mediamente gravi».Stesso discorso per il vaccino contro il batterio dello pneumococco - che protegge dalle polmoniti, pericolosissime negli anziani e nei fragili - che si può anche fare insieme alla protezione nei confronti dello zoster: «Il vaccino anti-pneumococco è consigliato dai 65 anni» conclude Pregliasco. «Ma anche prima, perché la polmonite è una patologia grave che impatta fortemente sul lavoro e sulla produttività. Si somministra una sola volta nella vita: al limite, per i pazienti molto fragili si può prendere in considerazione l’ipotesi di fare un booster per consolidare la risposta immunitaria».Secondo il professore, per il quale comunque occorre seguire le linee guida ministeriali e vaccinarsi anche contro il Covid, il calendario autunnale sarebbe di fare il vaccino contro influenza e coronavirus tra fine ottobre e primi di novembre, e continuare a distanza di qualche settimana con zoster e pneumococco.

Ancora, c’è l’ultimo sgradito «ospite», quel virus respiratorio sinciziale che terrorizza i genitori di neonati e bambini piccoli perché causa la temibile bronchiolite (spesso causa di sovraffollamenti nei Pronto soccorso). Può colpire anche gli adulti e - soprattutto - gli anziani, con gravi complicanze. In Italia, però, mentre per i neonati il piano di immunizzazione con l’anticorpo monoclonale Nirsevimab partirà a inizio novembre, per gli adulti il vaccino non è ancora disponibile tramite il Servizio sanitario nazionale. «Andrebbe praticato agli ultra-65enni e ai fragili» sostiene Ivan Gentile, consigliere Simit e professore ordinario di Malattie infettive all’Università degli Studi di Napoli Federico II. «Ma attualmente non è nel piano vaccinale italiano, perché è nuovo e quindi non fa parte dei Lea, gli ormai famosi Livelli essenziali di assistenza. Le Regioni, pertanto, non lo stanno acquistando. È un peccato, perché è sicuro ed efficace». A Milano, però, ci sono importanti centri privati che già lo somministrano, con un prezzo tra i 300 e i 350 euro: è un vaccino proteico tradizionale (quindi non a mRna) e si chiama Arexvi. Dagli Stati Uniti arriva infine una novità: l’agenzia nazionale Food and drug administration (Fda) ha da poco approvato il primo vaccino antinfluenzale sotto forma di spray nasale. Si chiama FluMist, lo definiscono «vaccino fai-da-te» perché può essere auto-somministrato direttamente dal paziente o dal caregiver evitando file dal medico di base, timore degli aghi e deltoide dolente causa puntura. Sarebbe una svolta nella lotta all’influenza (in Italia l’anno scorso si è vaccinato solo il 53 per cento di chi avrebbe dovuto) ma in Europa non è ancora stato approvato. Quindi, almeno per ora, se non vogliamo passare il Natale a letto, non resta che porgere anche l’altro braccio, in attesa di proteggerci facendo semplicemente un bel respiro.

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Maddalena Bonaccorso