Svidercoschi: «Equidistanze infruttuose del Vaticano in politica estera»
Per il decano dei vaticanisti italiani, la politica estera del Vaticano starebbe rivelando «un allarmante attendismo di fronte ad un pericoloso conflitto dal quale, da una parte e dall’altra, emerge il radicalismo religioso»
Gian Franco Svidercoschi analizza il profilo internazionale della politica vaticana, da cui saltano agli occhi i tratti caratteristici di un agire definito -senza mezzi termini- “controcorrente”, ma, anche per questo, “controverso” e, addirittura, volutamente “provocatorio”, ma, anche per questo, “divisivo”. Come le relazioni internazionali di Bergoglio così apertamente equidistanti da Kiev e Mosca e ora da Israele e Hamas.
Dottor Svidercoschi, dall’Ucraina al Medio Oriente è tempo di bilanci per la strategia dell’equidistanza di papa Francesco.
«Il Papa latinoamericano ha ribaltato la “politica estera” della Santa Sede: legge la storia non più dai palazzi vaticani, ma dalle periferie, dal sud del mondo, dalla condizione dei paesi più poveri. Distacco dall’Occidente, in particolare dagli Usa, e, specie con i viaggi, attenzione al Sud e all’Oriente. Visita molti Paesi islamici. Chiede giustizia per l’Africa. Trova nuove “alleanze” a Pechino e a Mosca: come per Putin, ricevuto con grandi onori in Vaticano nel 2019».
Ci troviamo al cospetto di un fedele interprete di una delle grandi intuizioni di Ignazio de Loyola, la cultura dell’incontro.
«Bergoglio è un Papa gesuita, cioè un Papa che rifiuta nemici, che “accarezza i conflitti”, come dice, ed è portato a conciliare: rifiuta di distinguere tra giusti e cattivi, tra bianco e nero, “la vita ha molti più flussi, importante anche il grigio”. Questo lo porta ad aprire le porte dei Vaticano ai negoziatori di un accordo Usa-Cuna, a quelli del Sud-Sudan, interviene per la crisi siriana, facilita la soluzione dei conflitti interni in Colombia, in Etiopia».
I successi in politica estera non si contano più…
«Praticamente, fuori dalle mura vaticane, Papa Francesco è un punto di riferimento per molti, fino a quando tutto questo salta, non basta più, quando il 24 febbraio 2022 le truppe russe invadono l’Ucraina. Adesso, c’è un aggredito e un aggressore, che occupa il territorio di un Paese sovrano, mietendo morti e distruzioni. Bisogna scegliere! Il Vangelo è un messaggio di pace, ma propone anche quel “sì, sì: no, no” che è un radicale rifiuto di ogni crudeltà».
Ma a questo punto qualcosa si inceppa nei meccanismi “esteri”…
«Il Papa, forse sperando di portare i due Paesi a riconciliarsi, traccheggia, non si esprime, aspetta 31 giorni prima di pronunciare la parola “invasione”, e comunque non nomina mai né Putin né la Russia. Ma è una equidistanza che non paga! Putin non risponde mai alle chiamate di Francesco che non può compiere i viaggi a Mosca e Kiev. Non può avviare una vera mediazione, che anzi Zelensky gli rifiuta in malo modo. La missione di pace affidata al cardinale Zuppi finora non ha portato a nulla. Dei 20 mila bambini ucraini deportati in Russia, non ne è stato restituito finora nessuno».
Passa poco, scoppia il conflitto Israele-Hamas…
«E il Papa ricade nuovamente nella gabbia di una equidistanza che, anzi, acuisce i contrasti tra le parti. C’è prima, all’indomani del massacro del 7 ottobre di Hamas, un laconico comunicato dei patriarchi e dei capi delle Chiese cristiane di Gerusalemme, nel quale, pur invocando la pace, non c’è un solo accenno alla bestiale azione dei terroristi di Hamas».
Scoppia la vicenda dell’incontro con i familiari di ostaggi israelo-palestinesi.
«Un gruppo di familiari degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas chiede di essere ricevuti dal Papa, che risponde di avere troppi impegni: ma in effetti in Papa non vuole mostrarsi di parte. Poche settimane più tardi, il Vaticano si inventa il massino della strategia dell’equidistanza, facendo incontrare il Papa prima con i familiari degli ostaggi e poi con un gruppo di parenti di residenti palestinesi a Gaza. Ma perché non incontrarli insieme, creando -almeno in Vaticano- una qualche riconciliazione tra i due popoli?».
Siamo all’incidente diplomatico…
«Gli israeliani si lamentano per la brevità dell’incontro, e perché il Papa non parla mai dei terroristi di Hamas. I palestinesi giurano e spergiurano – anche dopo le “deboli” smentite vaticane – che il Papa, nell’accennare all’assalto israeliano a Gaza, abbia usato il termine “genocidio”. Subito dopo, all’udienza generale, il Papa afferma che non si tratta più di guerra ma di terrorismo, accomunando così nell’accusa Israele e Hamas. Insorge il Consiglio dei rabbini d’Italia, insorgono personalità ebraiche, chiedendosi a che cosa siano serviti decenni di dialogo tra Chiesa cattolica ed ebraismo».
Lei è un vaticanista di lungo corso: ci aiuti ad interpretare!
«Va detto, onestamente, che negli ultimi anni la Santa Sede, se da un lato ha continuato a sostenere giustamente il diritto del popolo palestinese ad avere uno Stato, dall’altro ha lasciato quasi cadere il rapporto con l’ebraismo. Come dire che, dopo la storica decisione del Concilio Vaticano II di cancellare l’accusa di deicidio addossata per secoli all’ebraismo, dopo le visite di Giovanni Paolo II e dei suoi successori nelle sinagoghe, non c’è stato più un vero impegno da parte vaticana di sviluppare il dialogo con gli ebrei per una testimonianza comune».
Insomma, lei parla di una caduta di interesse, da parte vaticana, nel rapporto con Israele…
«Circostanza doppiamente grave tenuto conto che nel frattempo si è andato sviluppando – per poi esplodere adesso con il conflitto Israele-Hamas – un pericoloso antisemitismo: che è, anzitutto, opposizione all’esistenza stessa di Israele in terra palestinese, ma s’è anche trasformato – come s’è visto in molte manifestazioni nelle piazze occidentali – in una sorta di rigetto razziale, anzitutto nei confronti degli ebrei, ma anche di qualsiasi avversario. Un fenomeno preoccupante per l’evidente “dimenticanza” o quanto meno non conoscenza di ciò che ha rappresentato la Shoah».
Per non parlare della ricaduta pubblica della recente immagine di Israele…
«Un’inchiesta nelle università italiane ci dice che il 46 per cento dei giovani hanno paragonato l’attacco di Israele a Gaza a quanto Hitler ha fatto contro gli ebrei!».
Lei sostiene che la Chiesa cattolica, invece di barcamenarsi in equidistanze sempre più infruttuose, o in tentativi di mediazione, dovrebbe impegnarsi lungo un doppio binario.
«Con uno, tenuto conto delle sue secolari responsabilità “antigiudaiche”, impegnarsi con tutte le sue forze per combattere questo risorgente antisemitismo; con l’altro, impegnarsi per ricostruire un dialogo con ebraismo e islam, e far sì che le due religioni – all’inizio, almeno anche in piccoli gruppi di esponenti qualificati – possano riprendere a dialogare tra di loro».
Occorre che il Vaticano acceleri si questo doppio binario!
«Ci troviamo di fronte ad un pericoloso conflitto dal quale, da una parte e dall’altra, emerge il radicalismo religioso: gli uni e gli altri ritengono che solo una giustizia “divina” potrà cacciare da quelle terre i rispettivi nemici».
In molti attendono un’iniziativa coraggiosa di papa Francesco…
«Rimarrebbe convocare i rappresentanti religiosi di Ebraismo e Islam per una preghiera comune per la pace, come Giovanni Paolo II fece con la Giornata di Assisi il 27 ottobre del 1986. Si potrebbe fare sempre ad Assisi. Oppure scegliere Gerusalemme. Come potrebbero rifiutare gli altri capi religiosi?».
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Il libro
Con L'altro Francesco. I retroscena di un pontificato scomodo (Rubbettino, ottobre 2023), Gian Franco Svidercoschi, decano dei vaticanisti italiani, ci mostra Papa Bergoglio per com’è, per cosa fa e dice. Racconta senza veli un pontificato decisamente controcorrente, ma, anche per questo, controverso; un pontificato volutamente provocatorio, ma, anche per questo, divisivo. Vengono ripercorsi i momenti positivi, il rivoluzionare la figura pontificia, l’affrontare pubblicamente temi scomodi, il riportare alla purezza il messaggio evangelico; e poi, il difendere i poveri della terra, il sostenere le ragioni della pace.
L’autore
Gian Franco Svidercoschi, nato ad Ascoli Piceno, classe 1936, di origini polacche, è il decano dei vaticanisti italiani. Dopo gli inizi della professione giornalistica nel 1959, è stato inviato dell’ANSA al Concilio Vaticano II per assumere, poi, l’incarico di vicedirettore de l’Osservatore Romano. Tra le numerose pubblicazioni, il volume autobiografico di Karol Wojtyla, Dono e Mistero. Diario di un sacerdote (1996) e, con l’arcivescovo di Cracovia e già segretario particolare di Giovanni Paolo II, Stanislaw Dziwisz, Una vita con Karol (Rizzoli 2007) e Ho vissuto con un santo (Rizzoli 2013). La Lettera ad un amico ebreo (1993), è stata tradotta in venti lingue: è stato tra gli sceneggiatori del film "Karol, un Papa rimasto uomo"