La vera storia di Salvatore, l’agente baciato dalla No-Tav
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La vera storia di Salvatore, l’agente baciato dalla No-Tav

«Mio padre è carabiniere, io preferivo la polizia». «Un giorno tornerò a Pachino». «La ragazza? Ora non ce l’ho». Parla Salvatore Piccione, 25 anni, divenuto celebre per una foto. E per la sua calma.

Clic. Val di Susa, sabato 16 novembre, la foto ritrae una giovane manifestante che bacia un giovane poliziotto. Lei ha le labbra semiaperte. Lui gli occhi chiusi. Clic. È il bacio dell’anno, un twist sull’evergreen dei figli dei fiori «fate l’amore, non fate la guerra». Poi Nina, la ventenne immortalata, dice: «Nessun messaggio di pace, questi porci schifosi li appenderei solo a testa in giù». Così l’agente con gli occhi chiusi, e la sua non reazione, diventano il simbolo del nuovo corso della polizia nella gestione dell’ordine pubblico.

Arrivo a Grugliasco, caserma del reparto mobile di Torino. Il comandante Giuseppe Iorio, mentre mi accompagna dall’agente della foto, dice che «questo autocontrollo non è isolato, è frutto di un investimento sulla formazione e su una scuola di ordine pubblico». Che cosa vi si insegna? «Partendo dagli errori commessi in passato, studiamo modelli operativi che mettano polizia e manifestanti il meno possibile a contatto. Gli psicologi educano gli agenti a gestire lo stress. Responsabilizzandoli, gli insegniamo a non muoversi in modo isolato, prendendosela con il singolo manifestante, ma coordinandosi coi movimenti dell’unità». Cos’è cambiato rispetto al passato? «Lo sviluppo tecnico. Le nuove tute protettive sono ottime. E più protezione significa meno paura, e meno paura vuol dire meno reazioni scomposte. Poi studiamo il territorio con scout del posto». Il risultato è una tenuta dell’ordine più ordinata? «Diciamo che la mancanza di formazione di prima ha portato a Genova 2001. Il lavoro della scuola ha portato al bacio».

Insieme raggiungiamo l’agente Salvatore Piccione, 25 anni, nato a Pachino, in Sicilia, nella caffetteria della caserma. Ha appena staccato dal turno mattutino. Così, senza la divisa, pare davvero un ragazzino: l’opposto dello stereotipo dello sbirro antisommossa. Al tavolo con lui c’è un uomo sulla sessantina. Salvatore arrossisce: «Comandante, posso presentarle mio padre»? Il comandante Iorio si complimenta: «È un ragazzo pacato, educato; mai dato un problema». Il padre, ex maresciallo dei carabinieri, è venuto da giù per dirgli quanto è orgoglioso. Finito il caffè lasciamo padre e comandante a chiacchierare e girovaghiamo per questa specie di piccolo paese, che ospita 350 poliziotti.

Così tuo padre è un carabiniere...
Già. Con me è stato non dico severo, ma molto istruttivo. Una volta ho trovato un pallone in cortile e me lo sono portato a casa. Si è informato di chi era e me lo ha fatto riconsegnare.

Perché sei in polizia e non nei carabinieri? 
Forse per la tv, mi affascinavano di più i poliziotti, non saprei.

È il tuo sogno di quando eri bambino?
Sì. Mi sono arruolato apposta nell’esercito per fare il concorso in polizia.

Niente università? 
Il metodo più veloce era diplomarsi e arruolarmi. Sono entrato da 2 anni e mezzo.

Giovanissimo e già sistemato.
Beh, insomma, guadagno 1.280 euro al mese. Però con lo stipendio fisso mi sono comprato l’Opel Astra, l’auto che volevo, poi ho regalato un tv 52 pollici ai miei genitori per i 25 anni di matrimonio e, dato che non sono uno spendaccione, riesco a mettere qualcosa da parte.

Torni spesso in Sicilia?
Ogni 2, 3 mesi, quando mi mancano il mare e la cucina di mia madre.

Più che un figlio modello sembri un santo. 
I santi hanno l’aureola. Io prendo una birretta coi colleghi, vado a ballare con gli amici...

Hai amici soltanto tra i colleghi?
No. Però sono quasi tutti militari: due in marina, uno nell’esercito, uno è finanziere. Ma c’è anche un barman che fa cocktail spettacolari. Sono tutti di Pachino, come me.

Vuoi ritornare?
Sì. Ma devo ancora aspettare un anno per fare richiesta.

Hai la ragazza, qua a Grugliasco?

No, sono felicemente single. L’ultima relazione è finita per la lontananza: lei era di Roma e io ero a seguire il corso ad Alessandria.

Dopo la scuola di polizia cos’hai fatto?
Servizio in questura.

E com’è mettere le manette a qualcuno?
Facevo il corpo di guardia, non attività giudiziaria: non ho mai arrestato nessuno.

Come mai, ora, sei al reparto mobile? 
Per la mentalità. La fratellanza, la squadra, Qui non sei mai da solo, non sei nemmeno in due come una pattuglia, sei sempre in squadra.

Eri mai stato in un corteo da manifestante? 
No. Rispetto chi manifesta, ma non capisco perché dovrei farlo io contro o a favore di qualcosa: io non sono il tipo da manifestare.

Così non sai com’è prendere una manganellata... 
No.

E darla?
L’importante è che sia una manganellata a fin di bene. E io l’ho sempre fatto come mi hanno insegnato: nei cosiddetti punti verdi, come gambe e braccia, non nei punti vitali. Perché l’obiettivo è disperdere la folla, non colpire.

E cosa si prova durante una carica?
In quel momento non provi né piacere né dispiacere, solo adrenalina. Dopo non è che non ci dormo la notte, perché so di aver agito bene, però è un piccolo dispiacere.

Ma quand’è che diventa necessario?
È quello che impariamo in addestramento: a non cercare lo scontro. Quando m’insultavano, all’inizio, m’incazzavo dentro. Ora provo assoluta indifferenza. Anche perché non insultano me in quanto me.

Ti insultano perché appartieni al reparto.
Esatto. E il gruppo è la cosa più bella che c’è.

Nessuno svantaggio?
Sì: quando gioca la Juve sto sempre di servizio allo stadio. E siccome non entriamo più dentro, non vedo la partita, ma sento i boati e capisco il risultato prima di vederla in differita.

Sei un tipo sportivo?
Il calcio mi ha tolto dalla strada quando ero piccolo, avere un impegno strutturato mi è sempre piaciuto. Giocavo come difensore, in terza categoria, ma ho dovuto smettere perché con gli impegni in reparto non ce la facevo a star dietro agli allenamenti.

Praticamente è come un ordine religioso. 
Praticamente.

E com’è essere diventato un po’ il simbolo del tuo reparto? 
Bello. Anche se è stato involontario. Un mio collega era lì a fianco a me. Un signore sui 50 anni lo insultava. E anche lui non reagiva.

Solo che la ragazza ha baciato te. Com’è finire all’improvviso su tutti i giornali?
È strano. Sarei un po’ ipocrita se dicessi che non mi fa piacere che la gente mi riconosce per strada. Però vorrei che il messaggio fosse che siamo dalla parte dei cittadini.

Vuoi raccontare com’è andata?
Eravamo su una strada secondaria. Passa il corteo. Un gruppo di donne si stacca e viene verso di noi. Una dice: «Guarda quello quanti anni ha». Non ero sicuro si riferisse a me. Poi si avvicina e mi fa: «Quanti anni hai?». Io non rispondo, perché non spetta a me: meglio che parlino i superiori. Lei mi lecca il casco. E io resto immobile. Mi schiocca un bacio sulla visiera. E io resto immobile. Poi si dà un bacio sull’indice, passa la mano sotto la visiera e mi sfiora il polpastrello sulle labbra. A quel punto mi sono limitato a prenderla per il polso, senza stringerlo, e le ho detto: «Per favore, si allontani».

Ricordi che tipo era?
Non ricordo bene, dicono che era carina, ma io non sono andato a cercare le sue foto. Pare non fosse amore, ma solo disprezzo. Non voglio giudicare, ma non è una bella cosa volerci tutti «appesi».

Ma tu cosa ne pensi della Tav?
Non ho un pensiero. Noi facciamo un giuramento di fedeltà alla Repubblica. Ci sono anche manifestanti che parlano con noi e ci stringono la mano. Il problema è che si parla poco di normalità e se ne parla solo quando si scatena la guerriglia. O quando qualcuno schiocca un bacio.

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Marco Cubeddu

Nato a Genova nel 1987, vive a Roma, è caporedattore di Nuovi Argomenti e ha pubblicato i romanzi Con una bomba a mano sul cuore (Mondadori 2013) e Pornokiller (Mondadori 2015). Credits foto: Giulia Ferrando

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