Visegrad: chi sono e cosa vogliono i Paesi del club ribelle d'Europa
Ostilità verso i migranti e insofferenza crescente nei confronti della Ue (da cui hanno avuto un fiume di denaro): Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia fanno quadrato. Bruxelles guarda con diffidenza, Roma con simpatia
I quattro di Visegrad. Sembra il titolo di un romanzo di Simenon, uno di quelli brevi e sapidi che hanno per protagonista il Commissario Maigret, magari una sorta di seguito ideale di Pietr il Lettone. Te lo immagini ambientato nella Parigi degli anni Trenta, in qualche fumosa Brasserie, quando Lipp era ancora un posto non preso d'assalto dai turisti. Te li vedi prendere vita davanti agli occhi, quattro figuri un po' loschi, dai vestiti ordinari e sbarbati con poca cura, che confabulano in un angolo, davanti a una choucroute fumante e a boccali di birra bionda dalla schiuma densa e pastosa.
Cos'è Visegrad e quali Stati comprende
Visegrad: dove diavolo sarà? Sa di un Est antico, di guardie bianche fuggite dopo la Rivoluzione, di granduchi decaduti che guidano taxi nella sottile pioggia parigina; forse ancor più di personaggi minori, tra il losco e l'arguto, che tirano a campare in qualche camera a ore, corteggiando servette che si lasciano sfruttare mentre inseguono il sogno di un romanzo rosa, sempre più sbiadito e polveroso. E invece... E invece dovremmo fare uno sforzo e cercare di capire qualcosa di più di questo gruppetto che punta ad acquisire un peso crescente nell'Unione europea.
Di Visegrad, cittadina della contea di Pest, a nord di Budapest, re Carlo I di Ungheria volle fare la capitale del suo regno, e nel 1335 ospitò un summit con il re di Boemia, Giovanni del Lussemburgo, e il re di Polonia Casimiro III, per stabilire un'alleanza in grado di bilanciare l'espansione della monarchia asburgica. Quasi 600 anni dopo, e non per caso, a Visegrad si riunirono i capi di Stato di Ungheria, Cecoslovacchia e Polonia per elaborare una strategia comune in vista del futuro ingresso nell'Unione Europea.
Con il passare del tempo il gruppo di Visegrad è passato da 3 a 4 membri, nel frattempo tutti divenuti membri della Ue, con la secessione pacifica di Repubblica Ceca e Slovacchia. A Praga, Bratislava, Varsavia e Budapest si sono alternate maggioranze di colore diverso, ora tutte di orientamento decisamente conservatore, e all'iniziale entusiasmo per l'Unione si è sostituita una freddezza venata da crescente insofferenza e diffidenza.
Le involuzioni autoritarie di Visegrad
Il più conosciuto tra i leader dei "quattro di Visegrad" è il premier ungherese Viktor Orban: sorvegliato speciale della Commissione Europea per la deriva autoritaria del suo regime, che ha progressivamente portato sotto il controllo dell'esecutivo la magistratura e i media, annichilendo le possibilità di movimento per i suoi oppositori. Orban ha anche sfidato la Commissione sulla questione dei ricollocamenti dei migranti (che si è rifiutato di attuare) e per il muro fatto erigere sul confine serbo, cosa che gli ha consentito di respingere senza tanti complimenti tutti gli arrivi indesiderati provenienti dalla "rotta balcanica".
In termini di violazione dell'"acquis communautaire", neppure la Polonia scherza. Anche a Varsavia le garanzie per opposizionie stampa indipendente si vanno lentamente restringendo, mentre il Paese si chiude ai migranti "non cristiani" e rifiuta qualunque ipotesi di redistribuzione di quelli sbarcati in Grecia e Italia.
Perfettamente allineati su questi temi sono Praga e Bratislava, che però non dimostrano involuzioni autoritarie altrettanto inquietanti.
Perché Paesi euroentusiasti sono diventati euroscettici
Come Paesi che erano tra i più euroentusiasti si siano trasformati rapidamente in euroscettici è un esempio classico dei malfunzionamenti dell'Unione. Non c'entra la crisi economica o la tirchieria di Bruxelles. Polonia e Ungheria in testa, i quattro hanno avuto buone performance anche negli anni più bui della crisi e hanno ricevuto (e ricevono) consistenti trasferimenti dall'Unione (tra il 2010 e il 2014 la sola Polonia ha ricevuto fondi europei destinati a riforme strutturali per 109 miliardi di euro, e Polonia e Ungheria sono i Paesi che della Politica Agricola Comune hanno beneficiato di più in termini assoluti), oltre a sfruttare un costo del lavoro e una dinamica salariale estremamente contenuti.
Il problema, piuttosto, è più sottilmente legato alla sensazione di spossessamento dei processi decisionali a opera della Ue, di appannamento della propria identità culturale e di svuotamento della sovranità nazionale. Questi ultimi sono temi comuni a molti altri Stati-membri, oltre a rappresentare una questione oggettiva, ma la lunga esperienza del giogo sovietico ne esacerba i toni.
Paradossalmente però, mentre la Polonia si sente minacciata da Mosca e ha chiesto e ottenuto (insieme ai Paesi Baltici) una maggiore presenza delle forze della Nato sul suo territorio, l'Ungheria ha viceversa stretto le relazioni con Mosca soprattutto nel campo dell'energia (adesione al Turkish Stream voluto da Gazprom e finanziamento russo per l'espansione dell'impianto nucleare di Paks).
Quel che è ancora più preoccupante, Budapest sta attirando verso Visegrad l'Austria del Cancelliere Sebastian Kurz, tanto sulla questione migranti quanto su quella dell'ammorbidimento dei rapporti con Mosca. E le ultime elezioni in Slovenia e Croazia dipingono l'intera Mitteleuropa come afflitta da Eurofatigue.
Perché Ungheria e Italia di Salvini si stanno avvicinando
È a questa compagnia che sembra guardare con interesse il governo gialloverde di Giuseppe Conte, che si è espresso in termini di attenzione per i V4, l'Austria e Putin non già per bocca del premier o del ministro degli Esteri (Enzo Moavero Milanesi), ma attraverso le esternazioni del ministro dell'Interno Matteo Salvini.
Al di là delle polemiche sulle discusse relazioni tra il Cremlino e i partiti al governo in Italia, l'avvicinamento di questa all'Ungheria sul tema dei migranti apparentemente non si spiegherebbe: noi siamo a favore dei ricollocamenti, loro contrari. Obiettivo plausibile potrebbe essere quello di far fallire qualunque timida riforma del Trattato di Dublino per arrivare a una politica di chiusura delle frontiere esterne e di massicci respingimenti. Proprio la "ricetta" con cui Salvini pensa di risolvere il problema dell'immigrazione indesiderata.
(Articolo pubblicato sul n° 26 di Panorama in edicola dal 14 giugno 2018 con il titolo "Il club ribelle chiamato Visegrad")