Voi, politici impuniti
Il Laziogate è solo l’ultimo caso: dal Parlamento alle regioni, fino alle province, troppe promesse di rinnovamento, trasparenza e tagli sono cadute nel nulla. In nome della sopravvivenza della casta.
Dicono che adesso tutto cambierà. Dopo avere ridisegnato i confini del basso impero, i politici italiani vestono i panni antigattopardeschi. Party in stile antica Grecia mascherati da feste elettorali; happening per bambini bisognosi trasformati in degustazioni di vini pregiati; lussuosi suv acquistati con finalità istituzionali. Per farla breve: molti consiglieri regionali del Lazio si sarebbero abbeverati al cospicuo fondo per i gruppi. Travolta dal magma di indignazione, Renata Polverini si è dimessa la sera del 24 settembre. Destituita la governatrice, adesso si annunciano generiche svolte copernicane. Le ennesime.
«Ogni cosa, finché dura, porta con sé la pena della sua forma» scriveva Luigi Pirandello. Frase che i politici di ogni latitudine geografica (e partitica) dovrebbero riformulare: ogni scandalo, finché dura, porta con sé una promessa di cambiamento. Quasi sempre accompagnata dal verbo tagliare: i parlamentari, i consiglieri, gli stipendi, i rimborsi, gli appannaggi. In ossequio al momento, la classe politica si lancia ogni volta in adeguati proclami. Diffusi da uffici stampa, rilanciati dai media, infine accantonati grazie all’approssimarsi dell’affaire successivo.
Intramontabile classico del genere è il taglio degli onorevoli. Dopo infinite inchieste giornalistiche, che dimostravano come 630 deputati e 315 senatori fossero un numero senza pari nel mondo civilizzato, il presidente della Camera, Gianfranco Fini, il 20 dicembre 2011 aveva solennemente giurato: «Avere 945 parlamentari è un lusso che non ci possiamo permettere. La riduzione del loro numero sarebbe la vera risposta in termini di assunzione di responsabilità della politica di fronte alla giusta domanda di sacrifici del cittadino».
Sei mesi dopo, il 21 giugno 2012, il Senato pareva avere centrato l’agognato traguardo: i deputati passano a 508. Ma la votazione è servita soltanto a conquistare i titoli dei quotidiani. Perché, tre mesi più tardi, la legge sulla riduzione dei parlamentari s’è già arenata. Il mefistofelico pretesto è: prima bisogna approvare la riforma elettorale. Un argomento su cui però continua a regnare il caos. Morale: il numero degli onorevoli rimane immutato.
Tanto starnazzare per nulla. Come nel caso degli stipendi dei parlamentari. È l’estate del 2011: crisi economica, disoccupazione in crescita, salari sempre più bassi. L’occasione sembra propizia per sfoderare la solita litania: dobbiamo dare l’esempio e ridurci l’indennità. Solo a parole, possibilmente. Ed ecco l’ideona. Sembra di sentire la voce dell’architetto Rambaldo Melandri in Amici miei: «Cos’è il genio?» declamava. «È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione». Nel luglio del 2011, per placare gli inferociti cittadini, viene affidata a Enrico Giovannini, presidente dell’Istat, la guida di una commissione tecnica. Dovrà studiare le retribuzioni dei politici europei, per poi estrapolare una media cui anche i nostri onorevoli dovranno finalmente adeguarsi.
Il 10 dicembre una nota congiunta di Camera e Senato ribadisce: «Il Parlamento è pienamente consapevole dell’esigenza di dare vita ad atti esemplari e quindi anche di adeguare l’indennità dei propri membri agli standard europei». L’impresa della commissione Giovannini, come ampiamente previsto, si rivela però insormontabile. Lo scorso aprile i professori che ne fanno parte gettano la spugna: è impossibile calcolare una cifra congrua, vista «l’eterogeneità delle situazioni riscontrate negli altri paesi e le difficoltà incontrate nella raccolta dei dati». Quindi il problema è rinviato a data da destinarsi. Per gli onorevoli, però, il fallimento dei tecnici guidati da Giovannini diventa una rigogliosa foglia di fico dietro cui nascondersi: se non ce l’hanno fatta insigni docenti, come possiamo noi?
Del resto, nella primavera del 2012, le cronache giudiziarie avevano già variato l’agenda delle promesse. In febbraio era esplosa l’inchiesta sui rimborsi elettorali alla Margherita. L’ex tesoriere, Luigi Lusi, è accusato di avere sottratto dalle casse del defunto partito 13 milioni di euro pubblici. Soldi con i quali si era sbizzarrito: villoni con piscina, viaggi caraibici, cene luculliane. Poco dopo, in marzo, un’altra indagine terremota i vertici della Lega nord, a partire dal fondatore Umberto Bossi. I rimborsi del Carroccio avrebbero finanziato le spese di famiglia: compresa la laurea in Albania del figlio Renzo, il celebre «Trota», e le mitologiche canotte del senatur.
Si scopre allora che negli ultimi 18 anni sono entrati 2,3 miliardi nelle casse dei partiti, che però hanno giustificato formalmente spese per appena 579 milioni. Come dire: 1,8 miliardi spariti nel nulla. Troppi soldi, nessun accertamento, riforma del sistema indifferibile. Idv e Lega chiedono l’abolizione dei rimborsi. Il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, il 7 aprile 2012 declama stentoreo: «I soldi vanno dati solo ai partiti che accettano i controlli». Il 22 aprile il segretario del Pdl, Angelino Alfano, alza l’asticella: «Rinunciamo ai finanziamenti». Qualche giorno dopo viene approvato il dimezzamento dei rimborsi, dai 182 a 91 milioni all’anno. Nessuno vi rinuncia: soltanto la Lega, tentando di espiare, rifiuta l’ultima tranche. Nessuno si straccia le vesti in nome della trasparenza. E solo a partire dalla metà di settembre, sfibrati dalle polemiche, Camera e Senato hanno acconsentito a una verifica esterna sui bilanci dei partiti.
Adesso s’invoca pulizia nelle regioni. In Lazio, negli ultimi due anni, sarebbero stati distribuiti ai partiti quasi 30 milioni di euro. Soldi destinati al finanziamento dei gruppi, ma troppo spesso impiegati per spese personali, campagne elettorali comprese. Una sorta di secondo stipendio che in molti casi fa lievitare l’indennità a oltre 20 mila euro netti al mese. Eppure Renata Polverini, il 3 giugno 2010, nel suo discorso d’insediamento prometteva (sempre solennemente): «La regione dovrà tornare a essere una casa trasparente». Oggi quella casa è coperta dalla monumentale stazza dell’ex capogruppo del Pdl, Franco Fiorito: «er Batman» o, come preferisce lui, «er federale di Anagni». Solo prima di capitombolare il consiglio ha varato qualche risparmio, dando alla circostanza valenza epocale. I politici laziali restano però una caterva: 74. E guadagnano 14 mila euro lordi al mese.
Anche gli altri consigli hanno assicurato sterzate virtuose. Nelle 20 regioni italiane, del resto, hanno una poltrona ben 1.183 «onorevolini», che complessivamente costano 177 milioni all’anno. Dopo un anno di reboanti dichiarazioni sui costi eccessivi della politica, però, quasi nulla è cambiato. «Il taglio ai consiglieri si farà» prometteva il 15 settembre 2011 Nichi Vendola, governatore della Puglia. Passato un anno, i suoi colleghi ancora temporeggiano, sperando che Nichi abbandoni anzitempo per un ruolo di primo piano in un ipotetico governo di centrosinistra. L’auspicio dei politici pugliesi è diventato invece realtà nell’assemblea regionale siciliana. Il 7 dicembre 2011 a Palermo era stata votata un’epocale quanto maldigerita riduzione dei parlamentari: da 90 a 70. «Un segnale che denota grande senso di responsabilità» commentò a caldo Raffaele Lombardo, l’ex governatore. La legge però doveva essere approvata anche da Camera e Senato. E le dimissioni anticipate di «don Raffaele» hanno fatto saltare tutto, con gaudio magno degli eletti. Liberi tutti, dunque: l’assemblea siciliana resta la più pletorica d’Italia. E i suoi consiglieri i più pagati d’Italia, con quasi 20 mila euro lordi al mese.
A seguire, immediatamente dopo, vengono i colleghi della Sardegna, con 16 mila euro. Qui però, stufi di cincischiamenti, sono intervenuti i cittadini. Il 7 maggio 2012, con un referendum, hanno votato compatti per ridurre le indennità dei consiglieri. Che, un mese dopo, in una spossante seduta notturna, si sono riassegnati i vecchi appannaggi grazie a un provvidenziale emendamento inserito (nascosto) in un disegno di legge sui precari. Il referendum anticasta aveva abolito pure le quattro province sarde, istituite nel 2004. Entro la fine di ottobre, la regione dovrebbe votare una riforma complessiva degli enti locali, pena il guazzabuglio: soluzione che sarebbe gradita a tutti.
Del resto proprio in materia di province il governo di Mario Monti, fin dal suo insediamento, aveva annunciato imminenti rivoluzioni. Dileggiato per gli inconsistenti interventi sulla spesa pubblica, in primavera ha deciso il rilancio. Il 5 marzo Filippo Patroni Griffi, ministro della Funzione pubblica, promette: «Sulle province stiamo varando una riforma profonda». Tre mesi dopo, il 6 luglio, riattizza le folle: «Con il taglio delle province si compie una vera e propria svolta nell’assetto dello Stato».
Nell’attesa del prossimo comunicato, le 64 amministrazioni a rischio soppressione si stanno armando fino ai denti. Con improbabili accorpamenti, acquisizioni di comuni confinanti, articolati ricorsi ai Tar e alla Corte costituzionale. Prendono tempo, e intanto pregano: dacci oggi il nostro scandalo quotidiano, così che tutti si dimentichino delle province.