Nucleare: in arrivo piccoli impianti modulari
La fame d'energia rimette il nucleare al centro del dibattito. A che punto è la ricerca e come saranno costruiti i reattori di quarta generazione. Intanto, si allunga la vita dei reattori realizzati dagli anni Ottanta.
Era inevitabile che la necessità di molta più energia elettrica risvegliasse l'interesse per le centrali nucleari, soprattutto perché il costo dei chilowattora così prodotti è contenuto. Uno dei temi più interessanti a questo proposito è il cosiddetto nucleare di quarta generazione che viene spesso presentato come produttore di un quantitativo inferiore di scorie e realizzabile presso impianti più piccoli e meno pericolosi rispetto a quelli più vecchi, definiti invece di terza e seconda generazione.
La ricerca è tornata proprio sui piccoli reattori seguendo un'idea che risale a quasi 70 anni fa, quando per realizzare la propulsione nucleare sulle navi militari si era cominciato a studiare il modo per ridurne le dimensioni. Ma il limite tecnologico era rappresentato dai materiali disponibili, differenti e rari nelle varie parti del mondo, nei sistemi di controllo del tutto analogici e nelle procedure di gestione molto complesse.
Nonostante questo, almeno secondo i siti web di tracciamento, navigano ancora una quarantina di unità galleggianti e sommergibili così equipaggiate, la maggioranza delle quali militari e soltanto in piccola parte mercantili, come le celebri rompighiaccio russe. Con l'installazione delle centrali di grandi dimensioni negli anni Sessanta-Ottanta, l'esigenza di creare sistemi piccoli per altri scopi non c'era, tuttavia la tecnologia attualmente disponibile è tale che rimpicciolire i reattori è possibile, soprattutto costruirli in modo modulare, ovvero realizzarli in serie, standardizzando costi e tempi, e dove si è in grado di farlo meglio, quindi di trasportarli fino al sito di installazione e metterli in funzione anche in batteria. Fondamentale, in questo senso, l'esperienza militare dell'installazione su sottomarini e portaerei fatta dalla Guerra fredda in poi. Celebre in questo campo fu la prima portaerei a propulsione nucleare, la Cvn-65 Enterprise (in servizio tra il 1961 e il 2012).
Questi sistemi, per tipo di costruzione, sono in genere simili a quelli definiti di terza generazione, ovvero che utilizzano acqua per il controllo e il raffreddamento e un sistema di gestione del combustibile che inizia con l'estrazione dell'uranio e termina con lo smaltimento delle scorie nucleari. Se il combustibile esaurito non viene ritrattato, il ciclo viene definito «aperto» o «a passaggio singolo». Oppure, in qualche caso, sono sistemi simili a quelli di quarta generazione raffreddati per mezzo di elio e con ciclo combustibile definito chiuso, ovvero che viene ritrattato e parzialmente riutilizzato. Questi ultimi tipi, piccoli e moderni, stanno aumentando di numero soltanto da poco tempo in quanto, seppure ne esistano di funzionanti da qualche anno, sono serviti anni per collaudarli e per consentire di approvarli alle istituzioni che ne regolano costruzione e uso. Si pensa quindi che la loro messa in funzione avverrà in modo significativo soltanto a partire dal 2026.
Pensati una quindicina d'anni fa, non soltanto per produrre energia elettrica, ma per esempio anche idrogeno (dal calore di scarto), sono normalmente raffreddati mediante l'impiego di gas elio e controllati con la grafite, in alcuni casi possono riutilizzare le scorie nucleari ed esistono anche quelli definiti «veloci» in grado di bruciarle. Abbandonata l'acqua come refrigerante, possono anche conservare l'energia e in futuro potranno funzionare a torio, con la fondamentale differenza che questo nella crosta terrestre è tre volte più abbondante dell'uranio e richiede meno energia per essere estratto, con un impatto anche sull'inquinamento.
Ciò svela che le differenti generazioni di reattori si distinguono per due caratteristiche: il fluido refrigerante utilizzato (grafite, acqua pesante, acqua, gas, sali fusi oppure metalli allo stato liquido) e il cosiddetto moderatore, ovvero materiali che rallentano il flusso dei neutroni aiutando i fenomeni di fissione. Tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta è stata realizzata la maggioranza dei reattori che ancora oggi sono in funzione, detti di seconda generazione (con acqua bollente che raffredda il reattore e altra che si trasforma in vapore e fa girare le turbine), poiché anche se la loro vita operativa prevista doveva essere di circa 40 anni, le nuove tecnologie hanno permesso di rinnovarne alcune componenti estendendo il funzionamento fino quasi a raddoppiare le decadi inizialmente programmate.
Le operazioni di ringiovanimento consistono nella sostituzione dei generatori di vapore acqueo e il rinnovamento del contenitore del nocciolo che nel tempo diviene più fragile a causa di ciò che viene definito «bombardamento neutronico». Quindi nei sistemi di monitoraggio e sicurezza attiva e passiva. Il risultato è che probabilmente la vita operativa di taluni reattori aumenterà ancora, arrivando anche a 80 anni. Coetanei di questi sono quelli che utilizzano acqua pesante, come i tristemente celebri Rbmk sovietici, attori dell'incidente di Chernobyl nell'aprile 1986.
Tra quell'epoca e i primi anni Duemila è stata realizzata la terza generazione, che seppure simile alla precedente ha visto l'introduzione di sistemi di sicurezza che all'occorrenza intervengono a prescindere dalla presenza di un operatore. Il livello di rischio dopo Chernobyl è diminuito notevolmente, tuttavia poco si può fare se la causa di un incidente è determinata da eventi naturali, proprio come è accaduto nel 2011 a Fukushima per un violento terremoto seguito dallo tsunami. Ma più sicurezza significa anche tempi più lunghi e più costi, senza contare che taluni Paesi, abbandonato il nucleare, hanno progressivamente perso le competenze necessarie per realizzarli e mantenerli.
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