La grande ipocrisia della rimozione di Palamara
L'ex magistrato romano, radiato dal Csm, dice: «Pago io solo per un intero sistema». Ha perfettamente ragione. Il problema è che quel sistema è marcio dalle fondamenta. E avvelena la giustizia
La «rimozione», in psicoanalisi, è la cancellazione di un ricordo che causa troppa sofferenza. La mente non sopporta un'immagine, un momento del passato, così la seppellisce in un angolo buio della coscienza. Il termine «rimozione», nella sua accezione psicoanalitica, descrive perfezione anche che cosa sia accaduto oggi al Consiglio superiore dalla magistratura, che per l'appunto ha deciso di rimuovere Luca Palamara dalla magistratura: la pena più severa (e inusitata) prevista dalla giustizia disciplinare. Dentro quel Csm, oggi la magistratura (e di conserva la politica, che alla magistratura ormai regge la coda) ha deciso in realtà di rimuovere insieme con Palamara un problema fastidioso, o meglio la sua immagine, con un'ipocrisia degna dell'ottavo cerchio dell'inferno dantesco, il girone degli ipocriti.
Sulla sorte di Palamara hanno deciso i giudici laici e togati del Csm dopo appena tre ore di camera di consiglio. La difesa dell'ex magistrato aveva chiesto l'assoluzione, o al massimo due soli anni di sospensione, in attesa della sentenza del processo di Perugia in cui l'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati (dal 2008 al 2012), ex consigliere del Csm (dal 2014 al 2018), ma soprattutto potente leader di Unità per la Costituzione, Unicost, la corrente di centro delle toghe, da quasi due anni è imputato di corruzione.
La procura generale della Cassazione ha confermato le accuse: il sostituto procuratore generale Simone Perelli e l'avvocato generale Pietro Gaeta hanno accusato Palamara di «comportamenti di elevatissima gravità» e di «voler condizionare, in modo occulto, l'attività istituzionale del Csm», di cui faceva parte. L'obiettivo della manovre del reietto era manipolare le competizioni e pilotare la corsa alle più importanti procure italiane, a partire da quella di Roma con la sostituzione di Giuseppe Pignatone, andato in pensione nel 2019 (e dove lo stesso Palamara aveva presentato domanda per diventare procuratore aggiunto), e poi quella di Perugia.
In realtà, Palamara non è un mostro, non è un alieno, non è un corpo estraneo alla magistratura. Palamara oggi paga per un sistema che non ha creato lui, ma al quale ha efficacemente e potentemente aderito come centinaia di suoi colleghi. Da decenni magistrati (quelli onesti, e ce ne sono parecchi), giuristi, avvocati, ma anche pochi politici avveduti e qualche innocuo cronista che si occupa di politica giudiziaria, denunciano l'osceno «mercato delle vacche» che si pratica ormai impunemente al Csm. Da decenni si sa che le nomine agli uffici superiori troppo spesso vengono inquinate da squallidi accordi di corrente, da interessi incrociati, da manovre sommerse, da amicizie e da inimicizie personali. Da decenni lo si dice e lo si scrive, lo si denuncia, senza però che mai nulla accada. Mai. I ministri della Giustizia s'insediano e dicono: «Ora serve una riforma del Csm». Poi, quando va bene, si adeguano all'andazzo. In certi casi ci hanno anche sguazzato allegramente.
Poi, un bel giorno, capita che un magistrato che ha fatto parte del Csm ed è per di più il potente esponente di una corrente, venga casualmente intercettato mentre parla e «chatta» sul suo cellulare con decine di altri magistrati, che lo chiamano perché sono tutti interessati a fare carriera o (più meschinamente) vogliono bloccare la carriera del vicino di scrivania. E capita che quel magistrato si metta a parlare e chattare liberamente, perché è potente e si sente anche impunito e intoccabile, esattamente come capita a molti degli appartenenti alla sua stessa corporazione. E capita che anche tutti quelli che lo chiamano con lui parlino usando lo stesso linguaggio. Sul filo di quelle conversazioni, intercettate sul cellulare di Luca Palamara (e pubblicate da pochissimi giornali, come La Verità, perché la stragrande maggioranza dei media è parte dello stesso ottavo girone infernale di cui sopra), si sono letti atti di nepotismo, correntismo, carrierismo, tanti «ismi» che formano un mix velenoso, capace d'inquinare la giustizia e la stessa giurisdizione. Ma lo stesso accade, di sicuro, su decine, centinaia di altri telefonini. Ogni giorno. Insomma, così fan tutti. Ma allora, perché deve pagare soltanto uno? Quanti sono gli altri Palamara che ogni giorno giocano con le nomine delle Procure, forse anche e più di quello che oggi viene «rimosso»? Soprattutto, perché dentro il Csm non si è voluto scavare nel marcio del sistema, approfittando dell'occasione offerta dal caso Palamara, e perché quel sistema è stato lasciato inalterato? Via, nessuno è disposto a credere che tutti i magistrati che hanno avuto la fortuna di non incappare nelle chat di Palamara siano altrettante candide verginelle...
Per tutto questo, ancor più di quel che si è letto nelle pagine e pagine delle intercettazioni del Palamara «rimosso», scandalizza l'ipocrita decisione del Csm, che prima ha rifiutato di ascoltare i testimoni che il magistrato incolpato avrebbe voluto chiamare alla sbarra, perché potessero raccontare quel che era effettivamente accaduto (e tutto quel che c'era da sapere), e poi ha deciso di chiudere velocemente la pratica con una veloce ghigliottinata.
In realtà, è la magistratura degli ultimi 20 anni che meriterebbe la radiazione. E ha pienamente ragione Palamara, quando grida: «Sono consapevole di aver pagato per tutti, per un sistema che non funziona, che è obsoleto e superato». La speranza è che ora parli. Che dica tutto. E anche molto di più.