Paolo Cognetti, "Le otto montagne" - La recensione
L'anima della montagna e quella dell'uomo, due misteri che si sfiorano in una novella cruda e dolcissima vincitrice del Premio Strega 2017
Nella figurazione geometrica del mandala i motivi periferici culminano in un punto, il principio primo, il centro elusivo dal quale si espande l'intero diagramma. Da questa simbolica fonte attinge la sua energia Le otto montagne di Paolo Cognetti, vincitore del Premio Strega 2017, un romanzo di spiccata fisicità che poggia su un substrato spirituale profondo, costantemente percorso da un brivido. La montagna fatta di pietra di boschi e di ghiacciai, la montagna metafora della vita universale e individuale, interazione incessante di opposti che cooperano: potenza e rovina, libertà e prigione, passato e futuro, povertà e ricchezza, forma e sostanza, amore e odio, Occidente e Oriente. La montagna come letteratura, palcoscenico di arrampicate senza sponsor. Solitudine e gelo. Poesia degli sconfitti, aspra, dolente, rabbiosa.
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Ma Le otto montagne è innanzitutto, al livello più esterno del diagramma di lettura, un romanzo d'avventure. Parla di due amici e una montagna, ama sintetizzare il suo autore, e non mi sembra giusto aggiungere altro a una trama così apparentemente semplice che tuttavia, a guardarla bene, è tutta un salire e scendere, partire, tornare, ripartire. Con l'impazienza di chi, raggiunta una vetta, si ferma appena il tempo di ammirare il panorama e poi giù, subito indietro per un nuovo banco di prova. Nel solco delle grandi storie di formazione, prende dalla vita, dal tempo e dai codici affettivi il materiale di cui è fatta: il padre, la madre, il figlio, l'amico che somiglia per molti versi a un fratello, la natura, la nascita, la morte, il cambiamento.
Forte è la sensazione di trovarsi di fronte a un romanzo moderno, paradossalmente proprio quando racconta di cose antiche come l'intimità fisica della mungitura o il rito della cagliatura del latte. Cognetti ha lavorato in sottrazione evitando qualsiasi accento nostalgico. La città e la montagna corrispondono agli stadi di un'iniziazione. Scegliendo l'uno o l'altro teatro si perde inevitabilmente qualcosa nell'avventura della vita, e il risvolto di quella scelta continuerà a tormentarci, forse. Ma non si cresce se non si sceglie. Le otto montagne è un romanzo moderno per la sensibilità con cui disegna orizzonti aperti alle possibilità impreviste, senza imbrigliare il disagio in una forma chiusa. Seguendo la scia dei suoi personaggi, lo scrittore sembra aggiustare di continuo la rotta, come fanno le barche nella nebbia.
Il mestiere di scrivere secondo Raymond Carver consisteva nel creare tensione, collegando le parole fra loro secondo una precisa sequenza per dare forma a un'azione dentro una storia. Ma, aggiungeva, "creano tensione anche le cose che vengono lasciate fuori, che sono implicite, il paesaggio che è appena sotto la tranquilla (ma a volte rotta e agitata) superficie". Hemingway lo chiamava il principio dell'iceberg: più importante è quel che non si vede. Cognetti interiorizza tutto ciò lasciando scorrere d'istinto, sotto un lago di ghiaccio che sembra inscalfibile ma in realtà è friabile, un torrente di non detti che riaffiora sempre un po' più a valle rispetto a dove si fermano le sue parole. "Un uomo scendeva dal futuro con una ragazza, una mula, un cane e un carico di tome." Quello che manca ce lo mettiamo noi lettori, ciascuno pescando nella propria memoria, in ciò che non sapeva di sapere.
Da un altro punto di vista Le otto montagne è un romanzo senza tempo perché parla la lingua concreta delle cose. Noi topi di città l'abbiamo magari dimenticata ma da qualche parte è rimasta incisa nel nostro DNA. Cognetti usa la penna come un aratro per ritracciare il solco del mondo contadino da cui discendiamo tutti. Ho imparato per esempio che un pezzetto dello stomaco bovino, quello che il vitello usa per digerire il latte della madre, è ciò che chiamiamo caglio e che si usa per fare il formaggio. "È giusto no? Ma è anche terribile" dice il protagonista. Ecco tra queste pagine si prova il piacere - insieme sconosciuto e familiare - di sentire il fiato di mucca nel tepore di una stalla o di sagomare un tronco per costruire un tetto. Di misurare il tempo con la fatica, assecondando il ritmo delle stagioni perfino nelle gravidanze.
Dall'oblio riemergono le storie dei montanari di cui l'autore ha confessato di essere un "raccoglitore". Storie di (tanti) sommersi e (pochi) salvati. I due protagonisti hanno sviluppato una speciale empatia con l'ambiente di alta quota e con le sue rarefatte presenze, fino a costruire un'amicizia soprattutto sul silenzio, la solitudine, la distanza. "Forse era il gran silenzio attorno, la neve, il cielo pieno di stelle che si perdeva con la neve", diceva il sergente di Mario Rigoni Stern cercando una ragione per quel suo sentirsi "infinitamente solo senza capire la causa della mia tristezza". Le otto montagne prosegue il discorso sul sé iniziato dal Ragazzo selvatico nel precedente, seminale romanzo di Paolo Cognetti: da cosa scappiamo quando scappiamo da casa per salire fin sopra le nuvole? Cosa cerchiamo, il bramito del cervo o la nostra identità? Forse, più semplicemente, stiamo cercando di proteggere la nostra capacità di stare soli.
Alla desolazione delle cose umane appartiene il rapporto padre-figlio, con tutte le sue contraddizioni di ieri e di oggi. In questo libro la simbolica uccisione del padre costituisce la chiave e il movente dell'azione per i figli, ma anche per le madri assuefatte a un ruolo non scelto. Tenace custode di relazioni sociali precluse al suo orso, buono però a mettere le gambe sotto il tavolo la sera carico di rabbia dopo una giornata in fabbrica, la madre del protagonista è descritta con un'immagine bellissima: "tra i doveri di coppia si era presa anche quella di ammansirlo, attutire i colpi nella rissa tra mio padre e il mondo". Ma poi un misterioso istinto spinge quasi ogni figlio, come Telemaco, a mettersi in viaggio per ri-conoscere suo padre. Per trovare l'eredità segreta che lo tormenta ma non sta in nessun testamento, semmai da qualche parte sepolta a quattromila metri in un ricordo d'inverno.
"La nostra amicizia abitava su quella montagna e ciò che succedeva a valle non la doveva sfiorare". Le otto montagne riabilita l'asocialità come categoria esistenziale e letteraria. Non tanto perché ignora il trillo dei cellulari, ma per il discorso sull'essere cui accenna, specie nella sezione nepalese. Tra la montagna vecchia (le Alpi) e quella nuova (l'Himalaya) scorre il processo continuo della creazione - un dinamismo della natura indifferente - del quale la nostra specie partecipa suo malgrado. Benché il fallimento dell'istituto familiare sia qui totale, tanto nella versione tradizionale quanto nel suo surrogato d'alpeggio ("occuparsi di se stessi è già un'impresa", ammette Bruno), il passaggio dalle macerie alpine ai contrafforti dell'Annapurna suggerisce la presenza di un tempo assoluto, restituito alla purezza originaria. E di una famiglia universale piena di voci, di dignità e calore. Un'umanità forse non immune da ambizione o conflitti di potere, ammette il protagonista, ma ancora piena di idealismo.
La semplicità e la complessità dell'esistenza coesistono lì senza scopo, senza sovrastrutture. Come processi cosmici e stadi evolutivi riproducibili nella storia e nella struttura dell'organismo umano. Capisci allora che si può andare avanti anche senza il talento per le relazioni. E con un po' meno di sensi di colpa per tutte le aspettative non centrate. Capisci forse di doverti accontentare del sentiero. Per raggiungere la montagna sacra ovvero il centro del mandala, cioè per comprendere il segreto di quello strano miraggio che è il mondo, la strada è così lunga che una vita sola non basta.
Per approfondire
Paolo Cognetti
Le otto montagne
Einaudi
204 pp., 18,50 euro