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Ethan Hawke: «Non è semplice essere figli. E nemmeno padri.

Ethan Hawke: «Non è semplice essere figli. E nemmeno padri.

Due fratelli devono tumulare il papà che li ha cresciuti in modo terribile. L’attore americano anticipa a Panorama il suo nuovo film «Raymond & Ray» riflettendo su vita, morte e significato della parola «famiglia».


«Finché non hai bambini non capisci mai davvero i tuoi genitori, non sai cosa hanno passato nel crescerti ed è solo allora che diventi più clemente nei loro confronti, magari capisci i loro sbagli confrontandoli con i tuoi. E quindi fare questo film mi è piaciuto perché mi ha invitato a meditare su cosa voglia dire essere figlio ed essere genitore». Ethan Hawke, 51 anni, è figlio di un assicuratore e di una lavoratrice nel sociale, divorziati quando lui ne aveva cinque; a sua volta è padre di due bambini avuti da Uma Thurman e due da Ryan Shahughes, sua attuale moglie. L’attore, interprete di numerose pellicole tra cui alcune di culto come L’attimo fuggente, Prima dell’alba, Waking Life, Boyhood e Training Day, racconta a Panorama cosa vuol dire interpretare un uomo che vive con difficoltà il rapporto padre-figlio in Raymond & Ray, presentato in anteprima al Festival di Toronto. L’ultima fatica del regista Rodrigo García dopo la prima italiana alla Festa del cinema di Roma andrà in streaming su Apple Tv+ dal 21 ottobre. «Ray, il mio personaggio, sta cercando di rimettere insieme i cocci della propria esistenza: ha perso la moglie, ha avuto problemi di dipendenza e la vita non gli dà più alcuna gioia. È a questo punto che viene contattato dal suo fratellastro Raymond, che gli annuncia la morte del loro padre e il desiderio testamentario di quest’ultimo che siano proprio i due figli a seppellirlo». Quando Raymond (Ewan McGregor) arriva a casa di Ray (Hawke), i due non si vedevano da cinque anni. Il fratellastro non prende bene l’idea di partire insieme con lui per andare a casa del padre, dove dovrà svolgersi il funerale, perché questo risveglia spiacevoli ricordi in entrambi, dato che l’uomo non ha perso occasione per umiliarli e abusarli psicologicamente. Però accetta e, durante il viaggio, ciascuno ha modo di condividere le proprie sofferenze troppo a lungo taciute. «Ognuno dei due fratelli ha trovato il proprio modo di fare i conti con tale fardello» dice Hawke «ed entrambi rimarranno stupiti nel sentire gli altri parlare in tono soave di quell’uomo che ha rovinato loro la vita».

Come è nato questo progetto?

Io e il regista Rodrigo García una volta siamo stati insieme in giuria al Sundance Film Festival e abbiamo passato 10 giorni guardando film. Quando siamo partiti, all’aeroporto mi ha detto che aveva una sceneggiatura da propormi, mi ha detto che Ewan McGregor aveva accettato il ruolo di Raymond e mi offriva quello di Ray. L’ho divorata mentre ero in volo e, appena finito di leggerla, ho detto di sì.

Che cosa ha pensato?

Che la qualità della scrittura era molto alta – questo non capita sempre nel leggere un copione. Ci sono molti film in cui il personaggio è al servizio della trama e serve a fare avanzare la narrazione: sono soprattutto i film di genere, come quelli d’azione in cui bisogna correre per prendere un treno in tempo o disinnescare una bomba all’ultimo minuto, in cui i personaggi spesso sono «bidimensionali». Poi ce ne sono altri, è il caso di Raymond & Ray, in cui al centro del film ci sono persone, con il proprio carattere, i loro traumi, il loro passato, le emozioni e i sentimenti. Quelli che preferisco perché i ruoli sono più tridimensionali, danno la possibilità a chi li interpreta di impegnarsi di più, ma anche al pubblico di capire che le proprie vite, apparentemente normali, sono straordinarie e possono diventare un racconto cinematografico.

Come avete costruito la «chimica» tra questi due fratellastri?

Abbiamo fatto prove prima delle riprese, ma soprattutto abbiamo riallacciato i fili di una vecchia conoscenza. Ci eravamo incontrati attraverso Jude Law quando giravo Gattaca e ci eravamo piaciuti, tanto da frequentarci. Andavamo a molte feste.

Il film parla della morte. Lei ci pensa?

Veramente il mio programma ha al centro l’immortalità (ride). La mia citazione preferita è quella di Willie Nelson: «Non mi piace andare ai funerali e non andrò al mio».

L’immortalità voi attori la raggiungete restando impressi per sempre sul grande schermo.

Dice? Quelli che facciamo noi sono castelli di sabbia e alcuni vengono spazzati via dal tempo prima di altri. Non credo che i miei nipoti riguarderanno i miei film per ricordarsi chi ero. Una delle cose che ho imparato girando il documentario su Paul Newman e sua moglie Joanne Woodward (che sarà presentato in anteprima alla Festa del cinema di Roma, ndr) è che il maggiore impatto sulle persone che ami lo hai stando loro vicino. Quanto al valore dei film, tutti fanno parte della nostra coscienza collettiva. Quello che mi piace del mio mestiere è che il cinema stimola conversazioni tra le persone. Poi, magari, se sei fortunato qualche titolo rimarrà in una biblioteca e sarà studiato perché rappresenta un dato momento storico, anche se a me interessa più l’effetto che un film ha sul presente.

Il film è stato presentato a Toronto in cinema pieni di gente ma sarà visto soprattutto da persone sole davanti a uno schermo tv. Che ne pensa?

Amo vedere il cinema al cinema, perché stare insieme agli altri ti influenza nella visione: se il pubblico ride o si commuove per qualcosa, ti predispone a essere più aperto allo humour o al dramma. Però, come mi diceva Sidney Lumet, con cui ho avuto la fortuna di lavorare: se sei fortunato da vivere e lavorare abbastanza a lungo, capirai che l’arte del cinema è in costante cambiamento. Ai suoi tempi funzionava la tv, poi è arrivato il cinema, adesso vanno le serie o i film in streaming. Per me ciò che conta è che alla fine raccontiamo storie. E credo che se lo fai bene, hai già vinto la tua partita.

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