Il lockdown ha bloccato «le consegne» tra i diversi Paesi per i bimbi nati da utero in affitto. Questi, se non vengono lasciati con le madri naturali, vengono affidati ad altre donne estranee che si occuperanno di loro fino alla riapertura delle frontiere. In ogni caso, con un business da migliaia di dollari al mese.
All’interno la storia di una surrogata ai tempi del Covid-19 e la testimonianza video di una surro-manager.
Circa 200 dollari al giorno. Che raddoppiano durante il fine settimana e le festività. E triplicano in caso di notti insonni. Cifre indicative, a cui vanno – ovviamente – aggiunti i rimborsi spese per vestitini, giocattoli, cibo e accessori per la cura del bebè. Ma anche le spese per le visite mediche, eventuali medicine o vaccini, benzina e indennizzi per il resto della famiglia. Soldi facili, insomma, che ancora una volta arrivano dalle tasche di chi è disperato e vorrebbe costruirsi una famiglia e decide di investire nella maternità surrogata.
Se il coronavirus sembrava aver bloccato tutto il mondo, messo in ginocchio l’economia e chiuso per sempre le serrande di molte attività, ci sbagliavamo di grosso. Perché nel marasma generale, nella crisi che attanaglia famiglie che non riescono ad arrivare a fine mese, commercianti e imprenditori, c’è un business che non solo regge, ma si è plasmato adattandosi alle esigenze e che addirittura porta a guadagnare molto più del previsto. È quello delle mamme in affitto che, complice la pandemia e l’impossibilità delle famiglie acquirenti di “ritirare” il poppante prenotato, diventano babysitter a tempo indeterminato di quei bambini venduti a caro prezzo qualche mese fa.
A raccontarci come il mercato dell’utero in affitto non si sia lasciato sconfiggere dal Covid-19 è Katie Faust che da mamma surrogata si è trasformata in una sorta di manager di surrogate e guida passo a passo le giovani che vogliono intraprendere il suo stesso percorso. «Superati i 35 anni si è ormai considerate troppo vecchie, la gravidanza potrebbe diventare rischiosa e la spesa inutile per i futuri genitori» ci spiega «ma le fregature anche nel nostro lavoro sono sempre dietro l’angolo, il rischio di ritrovarsi nelle mani di persone poco serie è molto elevato, e per questo ci siamo noi “veterane” ad aiutare le più giovani a scegliere la clinica giusta o ad affrontare famiglie difficili». Per questo tipo di attività, «chiediamo un obolo, di solito circa 200 dollari. Ma possono essere di più in base all’aiuto e al tempo speso con la futura surrogata». Duecento dollari sono un nonnulla secondo Katie. E come darle torto? Dopotutto le più fortunate possono arrivare a guadagnare circa 150.000 dollari vendendo il loro utero a degli sconosciuti. Duecento dollari, in questo caso, sarebbero una bazzecola.
Di questi tempi, però, prestare questo tipo di consulenza è diventato più complesso. Fiutato il business alternativo, Katie e come lei tante altre donne in giro per il mondo, hanno quindi ben pensato di offrirsi come babysitter di neonati nati da maternità surrogata. Avete capito bene: una volta nato, il bambino viene strappato alla donna che l’ha messo al mondo e anziché consegnato ai genitori che lo avevano commissionato, viene portato a casa di un’altra sconosciuta che lo accudirà fino a data da destinarsi. Leggasi: fino alla riapertura delle frontiere. Ovvero: chissà per quanto.
Il bambino, che già veniva considerato come un ordine su Amazon, ora diventa a tutti gli effetti un pacchetto frignante, che passa di mano in mano e che avrà mai la possibilità di adattarsi a una famiglia. Perché chissà quando li vedrà i suoi “veri” genitori. Katie ci spiega che «quello che stiamo facendo in questo periodo è un gesto di puro ed estremo altruismo» e «un aiuto concreto alle surrogate che rischierebbero di affezionarsi al bambino e di creare problemi nel momento in cui dovrà essere ceduto alla coppia che lo ha acquistato». Insomma, niente di male. Se non fosse che per questa attività di babysitteraggio le “surro-manager” arrivano a guadagnare quanto una mamma surrogata. E a volte pure di più.
Un esempio concreto. Katie vie nell’assolata Florida e attualmente si è fatta lei stessa carico di un neonato nato da una surrogata. Il piccolo non ha nome, perché i genitori non l’hanno ancora scelto e per questo per ora si chiama semplicemente “Baby”, ovvero bebè. Il bambino ha poco più di un mese, «piange in continuazione» ci confessa Katie e ha bisogno di cure 24 ore su 24. Per questo la previdente surro-manager ha creato un piano di spese che dovrà affrontare per prendersi cura del bambino. «Ho un vero e proprio planner» ci racconta «su cui appunto giorno, mese e data. Ora per ora annoto quello che viene richiesto dal bimbo: quando deve mangiare (e cosa), quando fa il riposino, il bagnetto, gli cambio il pannolino, lo porto in ospedale per i check up necessari e quando mi sveglia di notte». Una routine necessaria, secondo Katie, per tenere sotto controllo le spese. «Ho stimato che in un giorno comune si aggirano intorno ai 150 dollari al giorno, ma siamo arrivati qualche giorno fa a circa 300 dollari perché il bimbo aveva bisogno di nuove tutine e calzini». I genitori di “Baby” abitano in Cina e chissà quando vedranno il loro bimbo, per questo lo videochiamano su Skype a orari prefissati, 3 volte a settimana. Ogni telefonata equivale, per Katie, a circa 50 dollari di rimborso spese poiché in quelle due ore toglie tempo alla sua vera famiglia. A essere folle è il tariffario che Katie ha stilato: una giornata standard, senza uscite, con 10 ore di costante attenzione al piccolo costa circa 150 dollari. Che diventano 200 nel momento in cui avviene la fatidica telefonata con la coppia cinese. In media Katie chiede 15 dollari all’ora per la cura del bambino e se ne prende cura per 10 ore. Il prezzo però oscilla in base a molteplici varianti: se per esempio i due figli naturali di Katie necessitano di attenzioni e la surro-manager deve sottrarsi al suo ruolo di madre per assistere Baby, la cifra può salire fino a 50 dollari all’ora. E che dire della notte? Se il bambino richiede particolari attenzioni, Katie ha concordato un bonus di 100 dollari per ogni ora di sonno persa con il bebè. «Se dovessero riaprire le frontiere a luglio ho concordato con la famiglia del bambino un compenso di 150.000 dollari» ci spiega «dovevano essere 100.000 ma sembra le cose siano andando per le lunghe e quindi preferiamo coprire anche tutto luglio senza alcun tipo di problemi». Parte della somma è già stata versata nelle tasche di Katie «circa il 20%, il necessario per iniziare a prendersi cura del bambino».
Katie non è l’unica manager dell’utero in affitto nel mondo. Il tam tam è partito da social, da Reddit soprattutto, e si è presto allargato ai gruppi Telegram e Facebook. Solo in Florida attualmente ci sono cinque surro-manager pronte a offrire il loro servizio alle donne in difficoltà. In California sono ben 25 le donne che si sono auto dichiarate disponibili a offrire il servizio di babysitter di neonati nati da surrogate. I prezzi, in questo caso, sono più elevati. Così come lo sono i guadagni delle madri surrogate. «Si parla di circa 300 dollari al giorno» ci spiegano da una piccola clinica di Santa Monica, nei pressi di Los Angeles «Poiché le babysitter sono autorizzate dalla clinica tratteniamo un 5% di commissione, ma il resto finisce tutto nelle mani delle nostre babysitter. L’esperienza nel campo della maternità surrogata di certo aiuta queste famiglie che si trovano dall’altra parte del mondo e devono fare i conti con un qualcosa di davvero inaspettato». La clinica ci mette in contatto con Jen Armstrong che in questo periodo si sarebbe dovuta prendere cura di un bimbo nato da una surrogata dell’Oregon. «La madre ha scelto di tenere il bimbo per tutto il tempo necessario per evitargli traumi ulteriori» ci racconta. Nel suo tono di voce, cogliamo una nota di dissenso. Le chiediamo il motivo. «Semplice. È la cosa più sbagliata voler rimanere in contatto con un bambino non tuo, figuriamoci addirittura immaginare una convivenza forzata con un piccolo che hai tu stessa partorito e che presto o tardi non vedrai mai più perché andrà a vivere a oltre 10.000 chilometri di distanza. È a mio parere non solo folle, ma anche pericoloso».
La storia a cui Jen si riferisce e quella di Shandi Phelps, madre surrogata alla sua prima esperienza, basata in Oregon che ha scelto, dopo mille indecisioni, di tenere il bimbo partorito di recente nella sua abitazione e di accudirlo a costo zero per i genitori cinesi. Shandi aveva raccontato a «La Verità» di come il legame instaurato con la famiglia l’avesse spinta a decidere di accudire lei stessa il neonato anziché spedirlo in California, tra le mani di una sconosciuta. «Come segno del nostro bel rapporto, I genitori ci hanno chiesto di scegliere il nome inglese del bambino che verrà indicato sul certificato di nascita a fianco di quello cinese, da loro scelto. Non è una scelta facile ma siamo felicissimi di questo rapporto e non posso fare a meno che sentirmi grata di aver trovato una famiglia così gentile».
Se in California e Florida tutto sembra andare per il verso giusto, in Georgia, uno degli Stati in cui la surrogazione di maternità costa meno, le mamme non sembrano voler scendere a compromessi e sono intenzionate a fare di tutto pur di affidare i bambini alle cure altrui. Non interessano i soldi: qui una maternità costa “appena” 60.000 dollari, perché rischiare ripercussioni sulla propria salute mentale quando si può inviare il bimbo a un’altra donna disposta ad accollarselo per tutto il tempo necessario? Lo Stato confina poi con la Florida e per questo risulta davvero semplice arrangiare un trasferimento del neonato appena nato.
Come in ogni storia di maternità surrogata che si rispetti, il business varia a seconda della dislocazione geografica delle surrogate. Se in America, così come in Canada, le cifre di queste nuove surro-manager-babysitter arriva alle stelle, in Paesi più poveri, come per esempio l’Ucraina la storia è davvero differente. Rob e Tenille Fellows, australiani, dopo migliaia di dollari spesi per diventare genitori erano a un soffio dal loro bambino la cui nascita è prevista per il 15 giugno. «E invece il governo australiano ci impedisce di viaggiare all’estero» spiegano «il bimbo per ora rimarrà in Ucraina dove pagheremo perché qualcuno se ne prenda cura. Ancora non sappiamo chi sarà, e siamo terrorizzati».
Anche nel Laos, uno dei Paesi in cui la surrogazione di maternità costa meno, si sta cercando di affrontare il problema. Ma a distanza. In questo caso le transazioni tra le future babysitter e le coppie che hanno acquistato un bambino vengono gestite dalle cliniche locali, soprattutto australiane, che trattengono una commissione del 40% al mese sulle spese. «Abbiamo pensato a questa formula per aiutare i genitori che non vogliono in alcun modo entrare in contatto con la surrogata selezionata dopo il parto» ci spiegano da una clinica di Perth «le commissioni coprono le spese di trasferimento del denaro fino al Laos ma anche il supporto 24 ore su 24 in caso di problemi con il bambino».
Insomma, mentre il Coronavirus continua a chiudere attività, distruggere l’economia e tenere bloccati nelle proprie case milioni di cittadini in tutto il mondo, l’unica attività che sembra proliferare e una delle più discusse al mondo. I bambini, che già potevano essere considerati come dei pacchetti sballottati qui e là da una parte del mondo all’altra, ora sembrano davvero e in tutto e per tutto comparati a delle semplici scatole, come quelle che Fedex o qualsiasi altro servizio di consegne deposita sugli zerbini di casa ogni giorno e a ogni ora. Se la pandemia dovesse continuare, siamo certi che le cifre aumenteranno a dismisura e sempre più donne, ormai disoccupate e impossibilitate ad affittare nuovamente il loro utero, si improvviseranno babysitter specializzate. Con buona pace dei bambini che, in questo gioco, sono solo una pedina come un’altra sulla scacchiera del guadagno.
La testimonianza video di una surro-manager
La storia di Shandi Phelps, mamma surrogata ai tempi del Covid-19
Dopo un ritardo di circa 8 giorni, Shandi Phelps ha dato alla luce un bambino in una piccola clinica dell’Oregon, negli Stati Uniti d’America. Il suo non è stato un parto come tutti gli altri: Shandi, infatti, è una mamma surrogata che ha affittato il suo utero a una coppia di cinesi che oggi, a causa del coronavirus, si trovano a oltre 10.000 chilometri di distanza, impossibilitati dai vari divieti a raggiungere gli Stati Uniti.
Senza una pandemia in atto, la storia di Shandi, il racconto di una maternità surrogata per una coppia Oltreoceano, sarebbe stato qualcosa di sentito e risentito e che, con tutta probabilità, sarebbe passato inosservato. Come fosse un qualcosa del tutto normale. In un altro scenario, Shandi avrebbe dato alla luce il bambino di cui è portatrice, lo avrebbe affidato alle cure della famiglia cinese che glielo ha commissionato ormai quasi un anno fa, e tutto si sarebbe risolto con il ritorno dei neogenitori in Cina e di Shandi nella sua casa a Grants Pass, un comune di 37.000 anime della contea di Josephine.
Quello che si apre ora, invece, è un limbo in cui verrà gettato senza mezzi termini un neonato totalmente ignaro di quello che sta succedendo nel mondo. «Da gennaio la mia vita ha preso una deviazione inaspettata» ci racconta Shandi. Era infatti il 23 gennaio quando a Wuhan, nella provincia cinese dell’Hubei, le autorità locali annunciavano la messa in quarantena della città a causa di un nuovo virus, altamente contagioso e letale, conosciuto come Covid-19. «Ero al sesto mese, la famiglia in Cina mi rassicurava che tutto si sarebbe risolto», continua, «ma le notizie sull’esplosione del coronavirus nel mondo, dalla Cina all’Italia non hanno fatto che susseguirsi, una dopo l’altra, minuto dopo minuto. Stare incollati ai telegiornali, non serviva a niente. Le notizie, non sembravano essere per nulla rassicuranti. Che fare? Ancora oggi lo chiedo ogni giorno a mio marito ma non trovo alcuna soluzione».
Già, perché con la chiusura delle frontiere e l’impossibilità di voli da/per la Cina, i committenti del neonato che Shandi porta in grembo non potranno mai «ritirare» il loro acquisto. O almeno, non in tempi brevi. «Quando ho iniziato questo percorso avevamo bisogno di soldi per la scuola dei bambini», spiega Shandi, «è la mia prima esperienza. Prima di decidere ho stilato una lunga lista di pro e contro, ho immaginato ogni problema possibile. Sono arrivata a pensare a cosa avrei provato in caso di aborto. Mai avrei immaginato di dover mettere al mondo un bambino e lasciarlo in un limbo, senza i suoi veri genitori». Senza la possibilità che il nascituro venga ospitato per il tempo necessario nella famiglia di Shandi e Geoff Phelps, l’opzione già sensata, secondo il direttore dell’ufficio legale del Surrogacy center di Portland, sarebbe quella di «allontanare il bambino e affidarlo alle cure di una tata per tutto il tempo necessario».
«La storia dei Phelps non è l’unica nell’Oregon», spiegano dalla clinica, «ci sono dozzine di famiglie con lo stesso problema perché il nostro Stato è uno dei pochi che non vieta la surrogazione di maternità per coppie straniere e la situazione si sta evolvendo in modo estremamente rapido. Per questo dobbiamo capire come aiutare tutti senza creare traumi alle famiglie delle portatrici».
Nei messaggi che ci siamo scambiati con l’ufficio legale del Surrogacy center di Portland non c’è alcun riferimento al nascituro che viene considerato, invece, solo come «una pratica da smaltire» il più rapidamente possibile. Ma Shandi, che è mamma di altri due bambini, Addie di 12 anni e Wyatt di 5, a cui ha dovuto per mesi spiegare che quello nella sua grande pancia non sarebbe stato un fratellino o una sorellina per loro, ancora oggi rimane dell’idea che sia difficile, se non impossibile non intervenire in prima persona in questa situazione. «Partorire e consegnare il bambino a degli sconosciuti? Non credo di poterlo fare. Non in questo momento», ci spiega. «Cambio idea ogni giorno. Ieri non avevo alcuna intenzione di accogliere un neonato nella mia famiglia, per un tempo indeterminato, e soprattutto sapendo di causare senza alcun dubbio un trauma nella sua vita e in quella della mia famiglia».
Nel caso del piccolo che Shandi Phelps portava in grembo, la soluzione paventata dalla clinica sarebbe stata quella di prelevare il neonato subito dopo il parto e portarlo nel Sud della California dove verrebbe affidato alle cure di una tata fino a che i suoi veri genitori non potranno partire per portarlo nella sua vera casa. «Mi sembrava una soluzione sensata, fino a ieri» ci rivela Shandi «ma il pensiero di affidare un neonato a una sconosciuta ora mi terrorizza. Così, abbiamo pensato di tenerlo nella nostra famiglia per tutto il tempo necessario».
Shandi non allatterà il neonato ma si è offerta, se non si troverà una soluzione alternativa, a utilizzare un tiralatte e un biberon. Inoltre, in comune accordo con la famiglia, riceverà un rimborso spese per tutte quelle attività collaterali che potrebbero rendersi necessarie nel futuro se l’emergenza sanitaria non dovesse rientrare in tempi brevi. Come segno di gratitudine per la scelta dei Phelps, la famiglia cinese, che ha preferito non commentare la situazione, ha solo fatto sapere che «il bambino avrà due nomi: uno cinese e uno inglese, che potrà essere selezionato dai Phelps». «Sarà dura», ci ha confessato Geoff, il marito di Shandi. «Alla fine sarà come avere un figlio adottivo, sicuramente ci affezioneremo a lui, e sarà difficile dirgli addio. Ma come possiamo abbandonarlo proprio ora?»