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(Ansa)

Il prezzo del grano crolla, quello di pane e pasta, no

Il prezzo del grano duro è così basso che non è nemmeno più conveniente produrlo. Eppure al supermercato tutto questo non si vede, anzi...

Il grano duro italiano scomparirà? Sicuramente soffre e tanto, ma il prezzo della pasta nei nostri piatti resta alto. Il calo di 16 euro a tonnellata del grano duro questa settimana ha portato le quotazioni alla Borsa Merci di Foggia al livello più basso degli ultimi quattro anni. Crollo storico. E in gran parte d’Italia gli agricoltori rischiano ormai di produrre in perdita. Si smetterà di seminare e mietere, rinunciando a una delle materie prime più caratteristiche del Made in Italy e base di uno dei piatti più rappresentativi del nostro Paese? E perché il costo della pasta nei negozi non scende? “E’ una speculazione legale derivante dal fatto che la domanda è sempre alta, nonostante ormai si arrivi anche a 3 euro al chilogrammo”, spiega Furio Truzzi presidente di Assoutenti.

Il prezzo per il grano “Fino” è sceso a 315-320 euro/tonnellata, quello del “Buono mercantile” a 305-310 euro/tonnellata. Quotazioni in calo, che si uniscono a rese per ettaro vertiginosamente diminuite a causa della siccità e riduzione delle superfici coltivate. Quest’anno in Italia si scenderà sotto quota 3,5 milioni di tonnellate di grano duro prodotte (mai così poco nell’ultimo decennio). Le superfici coltivate quest’anno sono scese sotto gli 1,2 milioni di ettari (-11% sul 2023). Si è toccato anche il -17% nel Centro Sud, che è l’area da dove viene circa il 90% del raccolto. Colpa della siccità (che in Puglia ha provocato per esempio un calo del 20/30% e fino al 70% in Sicilia), ma anche della concorrenza. Il grano in arrivo dal Canada è quello che preoccupa maggiormente. A differenza dell’Italia nel Nord America (così come in Turchia e Kazakistan) sono previsti raccolti abbondanti e la stima è di una produzione in aumento. E la quotazione del grano canadese resta alte (circa 370 euro a tonnellata). La concorrenza pesa dunque. Gli agricoltori sostengono che a questo si aggiungono costi di produzione che aumentano (con l’inflazione per esempio) e quindi significa produrre in perdita. Conviene continuare?

Il settore pasta è in ottima salute. Se ne producono 17 milioni di tonnellate nel mondo. L’Italia, con 3,6 milioni, precede Turchia e Stati Uniti. Gli italiani hanno un consumo pro-capite di 23 chilogrammi annui. 1,3 milioni di tonnellate sono consumate nel Bel Paese e 2,3 milioni di tonnellate sono esportate. Si tratta di un giro d’affari nel nostro Paese di 7 miliardi di euro. Il prezzo del grano crolla, ma per i consumatori la situazione non cambia. “Quando i produttori hanno aggiornato i listini al rialzo, arrivando anche sopra i 3 euro al chilogrammo, la domanda non è calata. Quando l’inflazione sale, aumentano i prezzi. Ma se non c’è poi un crollo della domanda, che obbliga i produttori a rivedere i prezzi, è “normale” che il costo sugli scaffali resti elevato, anche con il calare di inflazione e materie prime”, continua Truzzi.

Sugli aumenti della “scatola” di pasta i produttori negli ultimi mesi hanno incolpato anche la grande distribuzione, che ha risposto lamentando un aumento dei costi: energia, logistica, personale, ecc. I pastai hanno spiegato anche che la pasta che compriamo oggi in negozio è fatta con il grano acquistato dai produttori mesi fa, quando le quotazioni della materia prima erano più elevate. Finite le scorte quindi si dovrebbe usare il grano che oggi costa meno e forse si vedranno le conseguenze anche sugli scaffali? “Il tema vero è che molti consumatori non possono permettere paste da 3 euro al chilogrammo e quindi si espande il mercato dei prodotti di seconda/terza scelta. Ma finché la domanda resta alta i prezzi non scenderanno. E c’è da scommettere che uno sciopero della pasta in Italia sia fantascienza”, conclude Truzzi

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Cristina Colli