Quel bravo ragazzo, stralunato boss per caso – La recensione
Herbert Ballerina originale e comico protagonista di un gangster movie mafioso. Con alcuni nonsense di un personaggio imbambolato e assente
Si chiama Leone e ha il volto di Herbert Ballerina. Ma al contrario del suo nome neppure riesce ad essere pecora, con ogni riguardo e stima, s’intende, per i nobili ovini lanuti. Quel nome glie lo dato suo padre, Don Ferdinando Cosimato (Luigi Maria Burruano), che in verità non ha mai conosciuto ma che adesso, in punto di morte, lo chiama al suo capezzale per consegnargli in eredità l’impero mafioso che s’è costruito attorno.
Così s’avvia Quel bravo ragazzo (in sala dal 17 novembre) di Enrico Lando, specialista della “commedia altra” italiana (I soliti idioti 1 e 2, Amici come noi), dove di botto Leone, che fin troppo tranquillamente fa il chierichetto di Don Isidoro (Maccio Capatonda) in uno sperduto paese della Sicilia, si ritrova portato di peso al centro di un potere sterminato: con due spietati assistenti come Vito Mancuso (Tony Sperandeo) e Salvo La Mantia (Enrico Lo Verso) e l’avvocato-consigliere Enrico Greco (Ninni Bruschetta). E, naturalmente, con la legge del sangue, della pistola, della ferocia e del taglieggiamento da far rispettare.
Per i criminali è una disgrazia
Solo che il giovanotto non è proprio l’uomo giusto per questo tipo di cose. Anzi, pare essere quello sbagliato per qualsiasi attività pratica, assente e vacuo, con l’aria di uno appena strappato al sonno catalettico. Tanto assopito, ottuso e babbeo da far trasalire i suoi stessi “angeli custodi”, insidiando al tempo stesso l’integrità della loro dura scorza e della loro crudeltà. Insomma, uno così è una disgrazia per il sistema criminale ma, allo stesso tempo, una pacchia per dei poliziotti che vogliano mettersi alle calcagna della Cupola e scoperchiarla. Tocca così alla bella agente Sonia Morbelli (Daniela Virgilio) il compito, per la verità molto agevole, d’infinocchiare Leone facendosi credere innamorata di lui (ma un po’ per tenerezza affezionandoglisi per davvero) e condurre alla cattura dei boss nel bel mezzo dei loro “stati generali” organizzati per eleggere il capo dei capi alla successione del defunto Don Cosimato.
La filosofia dell’assenza
Rarefatto, imbambolato, inesistente, stralunato. Spesso irresistibile. Herbert Ballerina, nome d’arte di Luigi Luciano da Campobasso, spirito comico naturale in auge da qualche anno fra televisione, radio e internet, si propone per la prima volta da protagonista nel cinema dopo aver affiancato Maccio Capatonda in Italiano medio ed essere apparso in Che bella giornata di Checco Zalone e On Air – Storia di un successo di Davide Simon Mazzoli dedicato allo Zoo di 105. In una commedia filiforme e pazza, che trova i suoi esiti più efficaci e gagliardi quando sulla scena c’è lui, (anti)mattatore par excellence, emaciato e irresponsabile, elaboratore di una personalissima filosofia dell’assenza, astruso testimone dell’ovvio.
Un percorso “zaloniano”
Film surreale? Neanche troppo. Si direbbe, meglio, un costrutto rivolto alla levitazione e alla nobilitazione del torpore cerebrale e dell’ingenuità elevata a sistema nel disegno di un personaggio. Che, quando è presente, riesce sempre ad illuminare il racconto e a divertire (molto) con la sola espressione, i nonsense, le soluzioni di dialogo sorprendenti ed esasperanti. La storia, dal percorso vagamente zaloniano, balla diversamente senza Ballerina pur conservando un proprio, benigno e caustico umorismo: non tanto per difetto degli attori, tutti lodevolmente puntuali e diligenti nella qualità e nell’inclinazione comica della recitazione, quanto per un eccesso di regolarità – dunque per assenza di “anomalie” – nel modulo parodistico di genere gangster movie. Cui il titolo, evocando al singolare lo Scorsese del ’90 di Quei bravi ragazzi, fa non proprio casuale allusione.