Le ragioni sospette dell'attacco a Ratzinger
E' una bufera molto strana quella scoppiata sul papa emerito a seguito del rapporto di Monaco. Ecco per quale ragione
Lo spirito del mondo è tornato ad abbattersi su Joseph Ratzinger. E’ ormai noto a tutti che un rapporto, commissionato dall’arcidiocesi di Monaco, lo accusa di aver tenuto comportamenti erronei su quattro casi di pedofilia, quando era arcivescovo di Monaco e Frisinga tra il 1977 e il 1982. Il papa emerito si è difeso, respingendo le accuse. Ma al circuito mediatico questo non sembra interessare.
Si potrebbe ricordare che –nel caso più grave e noto dei quattro, quello riguardante padre Peter Hullermann– l'allora vicario dell'arcidiocesi di Monaco, Gerhard Gruber, si è sempre assunto la piena responsabilità dell'assegnazione del sacerdote a funzione pastorale. Si potrebbe ricordare che, ai vertici della Chiesa, Ratzinger sia stato in prima linea per arginare la piaga della pedofilia. Si potrebbe in tal senso ricordare che, nel 2001, da prefetto dell’ex Sant’Uffizio, firmò la lettera De delictis gravioribus, in cui erano contenute norme per contrastare il fenomeno: norme che vennero da lui stesso inasprite, nel 2010, da pontefice. Si potrebbe ricordare poi che un’ulteriore stretta arrivò nel 2011 con una lettera circolare, siglata dall’ex Sant’Uffizio. Tutto questo, senza dimenticare le dure parole contenute nella missiva ai cattolici irlandesi, inviata da Ratzinger nel 2010 o i numerosi incontri che, da papa, egli ebbe con vittime di preti pedofili. Si potrebbe ricordare che, nel biennio 2011-2012, furono quasi 400 i sacerdoti ridotti allo stato laicale da Raztinger per molestie ai danni di minori. Si potrebbe infine ricordare il fatto che, a volte, questi rapporti indipendenti sulla pedofilia dei sacerdoti contengano significative falle dal punto di vista metodologico e ideologico: è per esempio il caso del recente rapporto Sauvé, dedicato alla Chiesa francese.
Tante cose si potrebbero (e dovrebbero) ricordare, prima di trarre conclusioni affrettate. Ma per qualcuno tutto questo non ha importanza, perché evidentemente il vero fine non è quello di stabilire (come è sacrosanto che sia) la verità dei fatti, ma quello di colpire un nemico, seguendo le medesime dinamiche giacobine che caratterizzano la cosiddetta Cancel Culture: dinamiche fatta di gogne e processi mediatici. Non è la prima volta che Joseph Ratzinger si trova al centro di strumentali campagne denigratorie. Polveroni, spesso fondati sul nulla. Un caso esemplare, sotto questo punto di vista, fu l’ormai famoso discorso di Ratisbona del 2006, quando l’allora papa regnante venne messo alla berlina con l’accusa di aver offeso i musulmani. La strumentalità di quell’attacco era palese: non solo perché bastava leggere il testo della conferenza per capire che Ratzinger non aveva offeso nessuno, ma anche perché l’addebito mossogli non aveva a che fare con il merito della sua prolusione. Non si disse, in altre parole, che Ratzinger avesse torto, ma che Ratzinger fosse di fatto stato politicamente scorretto.
Riesaminare quella strumentalizzazione ci porta al cuore del problema. Su che cosa verteva infatti la prolusione di Ratisbona? Sulla necessità di una fede che si confrontasse con la ragione, nel nome di una comune ricerca della verità. Fede e ragione non devono chiudersi in sé stesse, escludendosi vicendevolmente, ma entrare in una reciproca relazione. Ebbene, proprio questo era il “problema”. Ma andiamo con ordine. Cominciamo col ricordare che una certa vulgata giornalistica (ma anche accademica) ha spesso cercato di dipingere la figura di Ratzinger come quella di un “conservatore” (dando al termine un’accezione spregiativa, figuriamoci!). Si tratta di un errore. Di un errore anche piuttosto superficiale. Innanzitutto il binomio categoriale conservatore-progressista ha senso soltanto se si ritiene che la Storia abbia una direzione immanente: in una prospettiva, quindi, rigidamente storicistica. Una visione, questa, del tutto lontana dall’impostazione ratzingeriana, che è invece portata alla salvaguardia della trascendenza. La Storia, in altre parole, non si risolve in sé stessa, ma acquisisce senso e valore esclusivamente dalla centralità del Cristo.
In secondo luogo, Ratzinger non considera la fede il prodotto meccanico e stanco di una mera tradizione: la fede implica infatti per lui un “salto su un abisso infinito” e il concetto stesso di conversione, come lo richiama in Introduzione al Cristianesimo, ha a che fare con una svolta. Una svolta decisa. Ratzinger è del resto pienamente consapevole che, soprattutto oggi, la fede non possa dare ragione di sé stessa facendo esclusivamente affidamento sulla tradizione. La tradizione non viene certo ripudiata, anzi. Ma non è lì l’essenza ultima. Ecco che allora la vulgata del Ratzinger conservatore o, peggio, reazionario è sempre stata parte di quella campagna di discredito di cui parlavamo. Ma la risposta al perché di questa ostilità è rimasta ancora inevasa.
La motivazione è da ricercarsi in quell’impostazione di fondo emersa chiaramente nella prolusione di Ratisbona. E, per capirlo, occorre tornare a un fondamentale passaggio dell’omelia che l’allora cardinale Ratzinger tenne nel 2005, in occasione della Missa pro eligendo Romano Pontifice. “Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare qua e là da qualsiasi vento di dottrina, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”. Il relativismo non riconosce nulla come definitivo e lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie. Qui sta la chiave di tutto.
Lo spirito del mondo si nutre di relativismo. Si nutre di relativismo perché non accetta una verità. Non accetta una verità perché sa che la verità farebbe implodere il sistema su cui esso stesso si fonda. Pensateci: l’assenza di riferimenti valoriali forti, di un pensiero solido, di un’ancora che affondi le sue radici nell’apertura al trascendente e nelle regole stesse della logica. I legami famigliari e sociali si indeboliscono, il circuito mediatico abitua all’irrazionalismo, mentre al centro si trova l’individuo che –lasciato a sé stesso, privo di ragione e di categorie che lo educhino alla complessità– si trasforma in un coacervo di bisogni indotti, una macchina prodotta in serie, che passa la sua esistenza con gli occhi rivolti a terra, consumando, consumando, consumando (anche quando, magari, qualcuno gli fa credere che sta sposando delle tanto presunte quanto vacue “battaglia di civiltà”, che si rivelano poi funzionali soltanto al consolidamento del sistema stesso). Non esiste verità, tutto è relativo. E, dal momento che tutto è relativo, che senso ha guardare in alto? Che senso ha cercare il vero? Che senso ha cercare Dio? Il relativismo è funzionale a un determinato sistema economico, ancor prima che politico. Un sistema impersonale che ha bisogno di consumatori, non di esseri umani. Che ha bisogno di atomi isolati, non di comunità. Che ha bisogno di disperazione, non di speranza. Che ha bisogno di materia, non di spirito.
Ebbene, Ratzinger è sempre stato un nemico giurato di tutto questo. Una fede in reciproco rapporto con la ragione è infatti il grimaldello in grado di scardinare tale sistema perverso, nella sua iniquità , oltre che nella sua radicale irrazionalità. Una fede senza ragione è invece costretta a starsene zitta e chiusa nella dimensione privata, mentre una ragione non aperta alla fede porta al mero operazionismo, che perpetua il sistema dominante. Ratisbona e l’omelia della Missa pro eligendo Romano pontifice non erano quindi espressione di “conservatorismo”, tutt’altro. Erano un grido di battaglia contro uno storicismo senza vera speranza e una Chiesa pregna di mondanità. Perché la mondanità della Chiesa, sia chiaro, non è soltanto quella delle illegittime collusioni tra dimensione sacerdotale e affari umani troppo umani. No, esiste anche una mondanità più sottilmente pericolosa, di chi vuole ridurre lo Spirito di Dio allo spirito del mondo. Di chi vuole una Chiesa sempre più indifferente alla trascendenza, ma anche al corretto esercizio della ragione. Una Chiesa che si inginocchia davanti al mondo, credendo o sperando che il mondo avrà pietà di lei. Ma non sarà così. E di questo Ratzinger è sempre stato consapevole.
Lo spirito benedettino contiene nella sua essenza non solo l’argine alla barbarie, ma anche il contrattacco, la capacità di squarciare il buio del nichilismo salvaguardando la verità che attraversa i secoli. Lo sguardo di Benedetto è lo sguardo di Agostino: la Storia non ha il suo epicentro nel presente, nelle pubbliche relazioni, nelle strategie di marketing, nel sentimentalismo e nell’immediatezza dell’immagine. No. La Storia ha il suo epicentro in Dio incarnato e su tale base la Storia stessa va giudicata, non su altro. Ratzinger –da molti semplicisticamente additato come il papa debole, il papa che non ce l’ha fatta– questo lo sa e di tale visione maestosa si è fatto carico, mettendo in guardia –per esempio in Gesù di Nazareth– dai tratti anticristici di cui il mondo contemporaneo è pregno. Tratti anticristici indubbiamente più inquietanti dei sepolcri imbiancati che stanno strumentalmente attaccando in queste ore un uomo di novantaquattro anni, nell’erronea convinzione che non possa o non sappia difendersi. Proprio questi attacchi dimostrano più di ogni altra cosa che a qualcuno Ratzinger faccia ancora paura. Fa paura allo spirito del mondo e ai suoi apostoli, che non a caso si inviperirono quando, nel 2019, il papa emerito pubblicò un breve saggio in cui collegava la piaga della pedofilia nella Chiesa alla svolta sessantottina, nel suo feroce attacco alla morale cattolica: uno schiaffo a quanti stabiliscono infondati nessi causa-effetto tra quella stessa morale e gli abusi sui minori.
Davanti a ripetuti e soverchianti assedi, si avverte un senso di impotenza. E lo spirito del mondo punta esattamente a questo, per neutralizzare i suoi nemici. Viene alla mente quanto disse Ratzinger il giorno stesso del suo insediamento pontificio. “Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi”. Ed è qui che troviamo un monito per tutti. Un monito di speranza e un esempio. Perché –nonostante il fango, le distorsioni e le calunnie– lui, davanti ai lupi, non è mai scappato.