Il giudice ha detto stop. Nella vicenda del Metropol non c’è stata alcuna corruzione internazionale e per questo i tre indagati italiani, Gianluca Savoini, ex portavoce di Matteo Salvini, l’avvocato massone Gianluca Meranda e il bancario vicino alla sinistra Francesco Vannucci, il 27 aprile, sono stati prosciolti dal gip Stefania Donadeo. L’ipotesi d’accusa della Procura di Milano, ai tempi in cui era guidata da Francesco Greco, è nota: tra giugno e ottobre del 2018 i tre avrebbero portato avanti insieme con vari soggetti di nazionalità russa una trattativa per acquistare petrolio a prezzo calmierato (con uno sconto tra il 4 e il 6,5 per cento) per poi rivenderlo a tariffa piena così da costituire ipotetici fondi neri da destinare alla Lega. E la pistola fumante di questo affare sarebbe stato un audio reso pubblico nel 2019 dai giornalisti dell’Espresso in cui si sentivano i tre indagati trattare con altrettanti cittadini russi (due identificati dai pm) nella hall dell’hotel Metropol di Mosca. Ma con l’archiviazione, adesso il vero mistero resta uno solo: il nome di chi ha portato al settimanale la registrazione della riunione nell’albergo russo, ampiamente strumentalizzata a fini politici.
Il giudice delle indagini preliminari che ha chiuso l’inchiesta non lo fa e neanche i pm sembrano averlo identificato. Ma quello che appare abbastanza evidente è che a realizzare la registrazione, poi finita nella disponibilità dei cronisti, sia stato il legale di origini calabresi con la passione per grembiulini e compassi.
Chi c’è dietro all’operazione mediatica che doveva azzoppare la Lega di Matteo Salvini in vista delle elezioni europee del 2019? È stata un’iniziativa di Meranda o c’è qualche mandante politico?
Giudice e sostituti procuratori hanno deciso di accettare la fòla che i giornalisti fossero seduti «a un tavolo a fianco a quello dove è avvenuta la conversazione tra gli indagati e i russi». Ma, come abbiamo già scritto, anche se i cronisti in quei giorni sin trovavano a Mosca al seguito del leader del Carroccio, qualcosa non torna. Infatti i due giornalisti non sono stati in grado né di fare una fotografia dell’incontro, né di contare il numero dei partecipanti al summit, tanto da riferire nel Libro nero della Lega che i complottardi erano cinque e non sei, come riferito in un secondo momento sull’Espresso. Inoltre il capitolo sul Metropol è stato quasi nascosto dentro al volume dato alle stampe a febbraio, quattro mesi dopo il famigerato incontro. Perché gli autori dello scoop erano andati a Mosca per documentare quell’abboccamento e, dopo quattro mesi di lavoro, avevano quasi occultato quell’esclusiva? Forse qualcuno aveva consegnato loro l’audio solo a ridosso della chiusura del tomo tra gennaio e febbraio, dopo che l’affare era tramontato? Il file è stato consegnato per vendetta ai giornalisti? Tutti interrogativi rimasti senza risposta.
Il giudice specifica che l’audio non è stato rinvenuto nei cellulari degli indagati, ma che non avrebbe subito manipolazioni. I magistrati sottolineano anche che a consegnare il file in Procura è stato uno dei due cronisti, che la traccia non era stata «registrata da lui direttamente», ma che lo stesso ne «era venuto in possesso». Come, resta un mistero gaudioso.
L’unica cosa che sappiamo è che nella conversazione, pubblicata online in una versione tagliata dai media (per proteggere la fonte?), si odono Meranda e Savoini parlottare dopo essersi allontanati dal tavolo per fumare e che «i due sottolineavano che la circostanza che fosse stata prevista una remunerazione anche per i russi faceva sì che l’affare fosse anche di loro interesse e potessero quindi stare più tranquilli sul buon esito dello stesso». Chi è che registrava? Meranda o Savoini? I magistrati su questo punto sembrano non avere dubbi, anche perché nel telefonino dell’avvocato hanno trovato altre conversazioni captate dallo stesso professionista sia con Vannucci che con altri. Tanto che il gip rimarca che Meranda «pare fosse solito registrare i propri incontri». Con ogni probabilità all’insaputa degli interlocutori.
La Procura e il giudice sembrano concordare anche sulla concretezza della trattativa tra italiani e russi per finanziare la Lega. Anche perché lo studio di Meranda avrebbe ospitato un comitato elettorale di Salvini premier. Un’altra prova granitica? In un audio il lobbista asserisce di non essere interessato al proprio ritorno economico. La domanda sorge, però, spontanea: si tratta di un’affermazione genuina o è inquinata dalla consapevolezza della registrazione in corso? Fatto sta che a un certo punto Meranda, separatamente da Savoini, sembra intavolare un negoziato autonomo per comprare e vendere petrolio. La prova sarebbe una lettera datata 9 agosto 2018 firmata dall’avvocato e indirizzata a Igor Sechin, amministratore delegato dell’azienda petrolifera Rosneft. Scrive il giudice: «Questa lettera si inserirebbe in una diversa trattativa in corso coi russi; un filone diverso rispetto a quello che coinvolge gli altri due indagati (Savoini e Vannucci) e che culmina con l’incontro del 18 ottobre 2018 all’hotel Metropol di Mosca». A che gioco giocava Meranda e chi è davvero questo professionista dalle mille conoscenze? A quanto risulta alla Verità gli investigatori hanno trovato nel cellulare e nel computer dell’avvocato prove dei tentacolari rapporti dell’avvocato calabrese degne di approfondimento e di sicuro interesse giornalistico.
Alla fine a far saltare l’accordo e a salvare i tre indagati, sarebbe stata, per la classica eterogenesi dei fini, «la divulgazione a mezzo stampa della trattativa», ma anche, come era già successo nell’inchiesta per finanziamento illecito nei confronti di Matteo Renzi, la riforma Cartabia. Evidenzia il giudice: «Occorre chiedersi se delle trattative possano integrare un fatto penalmente rilevante». E questa è la risposta della toga: «Reputa il gip che i risultati delle indagini svolte non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna né allo stato si prospetta l’utilità concreta di ulteriori indagini. Tale valutazione particolarmente restrittiva si impone ancor più oggi alla luce delle modifiche introdotte dalla riforma Cartabia che […] ha previsto che il pubblico ministero debba chiedere l’archiviazione “quando gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna”». E qui la prognosi è facile facile, visto che per contestare il reato di corruzione internazionale occorre individuare il pubblico ufficiale corrotto o da corrompere. Ma il funzionario in vendita, sempre che ci fosse davvero, non è stato smascherato. Gli indagati in messaggi e conversazioni hanno fatto riferimento a un misterioso signor «K» o Konstantin che, a un certo punto, la Procura aveva identificato nel politico russo Konstantin Kosachev. Ma poi, gli ulteriori sviluppi delle indagini avevano reso «assai più probabile che si trattasse» dell’imprenditore Malofeev, «figura più volte accostata» a quella dell’ideologo Aleksandr Dugin, molto vicino al dossier e alla Lega. Per questo i magistrati hanno alzato bandiera bianca: «L’impossibilità di identificare con precisione i soggetti russi coinvolti nelle trattative descritte e le cariche pubbliche rivestite dagli stessi a causa della mancata risposta della Russia già prima dell’inizio della guerra in Ucraina e l’ancora maggiore improbabilità di ottenere una risposta a seguito del conflitto non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna degli indagati per il reato di corruzione internazionale», si legge nel decreto di archiviazione. Il giudice, pur lanciando una stilettata verso la Lega, ammette che non si può contestare neanche l’ipotesi di erogazioni illegali al Carroccio: «Quanto alla possibilità di poter contestare l’ipotesi di finanziamento illecito, sia pure in forma tentata, occorre evidenziare che è risultato dalle indagini che gli atti posti in essere erano inequivocabilmente diretti verso l’obiettivo finale di finanziare illecitamente la Lega», grazie ai rapporti che Savoini aveva saputo tessere con la Russia. «Tuttavia detti atti» conclude Donadeo, «non possono qualificarsi idonei a raggiungere, almeno potenzialmente, lo scopo, non essendosi conclusa non solo la fase finale di destinazione di una certa percentuale alla Lega, ma neanche l’operazione principale di compravendita di prodotti petroliferi. In definitiva non essendosi perfezionate neppure le prime fasi della trattativa […] l’intera operazione rientra in un proposito criminoso non costituente reato». Resta, forse per sempre, nell’ombra chi volesse affondare Salvini e il suo partito.