Resident Evil: The Final Chapter – La recensione
Si chiude la saga dopo 14 anni: Milla Jovovich acrobatica e sexy nell’assalto finale a Racoon City per strappare l’umanità alla pandemia del T-Virus
Il festival dei mutanti. Miliardi di mutanti sulla Terra Mutata. Zombi, cerberocani corazzati e azzannanti, belve alate che al cospetto lo pterodattilo è un canarino indifeso e pigolante. Una trappola terrificante attorno ad Alice/Alicia (Milla Jovovich)e al manipolo di sopravvissuti che tenta l’ultimo assalto per disinnescare l’orrore che ha agguantato il pianeta. Con un indizio, nella prima scena, che pare una citazione mirabolante quanto involontaria: il ragazzino che “muta” nella cabinovia e fa strage di viaggiatori sicché, quando la navetta arriva a destinazione e si apre la portiera, il mostriciattolo è scappato e tutt’intorno le pareti grondano sangue. Insomma, l’avvio nella sala parto del mitico It’s Alive (Baby Killer) di Larry Cohen, roba seria, del 1973.
Una longevità tenace
Parte così per l’ultima stazione il convoglio sferragliante di Resident Evil: The Final Chapter (in sala dal 16 febbraio), numero sei di una saga lunga quattordici anni, accompagnata da fortune qualche volta superiori ai meriti ma tutto sommato “epocale” nella sua longevità tenace, garantita ancora una volta da quel Paul William Scott Anderson, il cinquantaduenne inglese di Newcastle che ne è regista, sceneggiatore e coproduttore oltre che marito di Milla Jovovich medesima (gli si devono altre specialità di genere: tra l’altro Mortal Kombat, 1995; Alien vs. Predator, 2004; I tre moschettieri in chiave fantasy, 2011; il catastrofico Pompei, 2014).
Il blitz definitivo anti-umani
È la carica definitiva. Quella del tutto o niente. Con le componenti riunite come fosse un passo d’addio, meglio una passerella finale o una sfilata d’onore. Si torna nel ventre della Racoon City primigenia, si tenta l’incursione nella fossa senza fine dove la Umbrella Corporation del perfido dottor Isaacs (Iain Glen), il quale si moltiplica e autoclona come se nulla fosse, dopo aver diffuso il T-Virus che ha generato moltitudini di non-morti e mostri d’ogni risma, sta escogitando il blitz conclusivo contro un’umanità a dire il vero già ai minimi termini: per far ricominciare daccapo la storia del mondo con una pulizia razziale planetaria e ovviamente folle. Là dove s’annida l’orrore, però, è custodito pure l’antidoto al virus che potrebbe salvare i popoli e far tornare umano tutto ciò che, nel frattempo, è diventato disumano.
Ed è proprio là che punta Alice, consapevole del fatto che morirebbe non appena l’antidoto fosse liberato: nella disperazione sacrificale di una intrapresa che deve fare i conti, per fortuna, col recupero delle sue capacità di superdonna e con l’aiuto insperato di una figura ologrammatica capace di tenderle, al momento giusto, la sua mano artificiale ma efficacissima.
Fondali apocalittici e dark
Se l’orizzonte pandemico si rasserenerà varrà la pena scoprirlo in sala. In capo a 106 minuti di fragori, capriole, spari, grugniti, sonorità assordanti, carni straziate, corse a perdifiato e sgocciolanti trasudi di terrore oleoso e rugginoso. BOOM-BOOM! POW! CRASH! La calma non abita qui. Il panorama è darkissimo, anche troppo e il 3D certo non aiuta anche col suo ruolo moltiplicatore. Però confonde abbastanza da mescolare le carte di un film che, se messo a nudo, diciamo al netto degli effetti e dell’azione forsennata, sarebbe poverino, addirittura scheletrico nella storia elementare e nei dialoghi talmente vacui, se non addirittura infantili, da essere disarmanti. Più o meno come i videogame di riferimento, successione ininterrotta di angosce, stazioni, tranelli e nemici sempre oltre l’estremo limite del credibile.
L’immaginario strabiliante
C’è da chiedersi, in ogni caso, se certi elementi di qualità servano davvero in queste circostanze. La risposta, probabilmente, è no. Nel cyber-intrattenimento dove nulla, ma proprio nulla è reale, vince en conséquence l’immaginario più esasperato e strabiliante: dove l’eccesso, assiduamente ricercato, diventa necessario e funzionale: anche quando, come qua, è (sontuosamente) primitivo nella sua esaltazione dell’assurdo. È il tripudio della computer grafica, generatrice di mostri, di paesaggi apocalittici che richiamano Hiroshima postatomica e d’incubi a cielo aperto. Dunque il meglio per i fan della saga. Se poi questo Final Chapter sia a sua volta il migliore della serie è cosa da discutere. Di certo il fatto che sia l’ultimo (almeno così sembra) la dice lunga sulla opportunità di stirare ulteriormente una materia che potrebbe sembrare un po’ logora.
Una figura ancora vivace
Logora non è, invece, Milla Jovovich: sexy, scattante, acrobatica, incosciente e carismatica, in una parola iconica. Che forse non vede l’ora di liberarsi dei costumi fascianti d’Alice ma che, al tempo stesso, riesce a dare un senso compiuto e sempre convincente al suo personaggio, cui regala ancora una volta ottimi motivi di sopravvivenza. Le sono accanto parecchie attrici e attori di gran dinamismo e feroce determinazione nel manipolo di scampati al virus: una coralità vivace ma abbastanza opaca e convenzionale dalla quale sbucano, brillanti e guerriere, la Claire Redfield di Ali Larter e la Ruby Rose di Abigail.