Salma Hayek
Ansa

Salma Hayek tutt'uno con Frida Kahlo contro il "mostro" Weinstein

Nel film in cui ha sperimentato tutta la ferocia del produttore, l'attrice è entrata in connessione con la pittrice. In una forza di compenetrazione che le ha permesso di saltare l'ostacolo del suo prepotente interlocutore

Con buona pace di Bertolt Brecht e del suo straniamento. L’immedesimazione non ha soltanto stabilito un principio d’interpretazione e un frutto d’una scuola; ma ha anche materializzato sogni, come quello di Salma Hayek nel 2002, quindici anni fa oramai, di recitare in Frida la parte di Frida Kahlo. Meglio, di “essere” lei, diretta da una donna, Julie Taymor allora cinquantenne da Newton, Massachusetts, pedinata dal mostroHarvey Weinstein del quale proprio l’altro giorno ha evocato al New York Times avances e minacce che all’epoca suonavano peggio d’un ricatto: proprio perché insidiavano un’ambizione, un desiderio, un atto d’amore.

Salma diventa Frida alla Stanislavskij

Ma la voglia di essere Frida, e addirittura posizionarsi nel gruppo di produttori del film, ha fatto vincere a Salma la sua battaglia, miracolo d’immedesimazione e volontà di ferro perché, come ha raccontato, dopo le intimidazioni e la furia per le oscene proposte respinte, Weinstein parve placarsi con l’inizio delle riprese, salvo riaffiorare dalle paludi con un pesante revival d’approccio avvertendola che le avrebbe consentito di finire il film solo se avesse esaudito la richiesta di “aggiungere una scena di sesso con un’altra donna chiedendo nudità frontale completa”.

Per amor di Khalo, dunque di se stessa, l’attrice accettò, poi piangente e tremante sul set. Ma probabilmente con la forza di chi, pur avendo consapevolezza di sé e della propria identità di donna e di artista, era in qualche modo uscita dal proprio corpo per entrare in quello di un’altra. Meglio, stabilendo con l’altra uno stato permanente di affinità e interiorizzazione partendo dall’indagine psicologica sul personaggio. Tutto questo in una parola, anzi in un nome: Konstantin Sergeevič Stanislavskij. E il suo “metodo”.

Salma pittrice come Frida

Sistema che, nel caso specifico di Salma Hayek, vince il derby con quello di Brecht. E rappresenta, in Frida e non solo, un passaggio vincente. D’altra parte la fenomenologia attrattivo-seduttiva che coinvolge l’attrice nella sua adesione alla figura della pittrice non ha, per così dire, una motivazione solo cinematografica (che rimane, comunque, il punto di approdo nella lista dei desiderii). La comune matrice e appartenenza messicana, per esempio: di Coatzacoalcos è Salma, di Coyoacán è Frida. Poi quel processo d’identificazione che, se per la Hayek si realizza in una sfera emozionale, trova certo la sua sponda migliore e la sua armonizzazione artistica quando arriva a Los Angeles, nel 1987, trovando in Stella Adler, illuminata proprio da Stanislavskij e dai suoi profeti in America Ryszard Bolesławski e Maria Ouspenskaya, l’insegnante e la scuola perfette.

Ma il processo d’immedesimazione ha pieghe ancora più sorprendenti. Chi ha dipinto nel film i quadri di Frida Khalo? Semplici riproduzioni? Originali? Macché. La “pittrice” di Frida è proprio lei, Salma. Talmente dentro alla sua parte da attivare un complesso, profondo sistema imitativo/emulativo addirittura più robusto e sodo di quanto il metodo possa prevedere. Ribadendo il concetto: forse anche grazie al suo essere “altra” e al sacro ardente fuoco della compenetrazione Salma riesce a saltare l’ostacolo, appena ricordato, del suo prepotente e patologico interlocutore.

Il metodo Stanislavskij secondo Brando e Bale

La signora Hayek, che appena l’altr’anno ha compiuto cinquant’anni ed è felicemente unita ad un marito francese e miliardario (François-Henri Pinault) non è naturalmente la sola ad essersi spinta fino ai confini del metodo Stanislavskij, peraltro oltrepassati o esasperati dal leggendario Actors Studio, icona newyorkese della recitazione, fondato da Elia Kazan e diretto per più di trent’anni da Lee Strasberg. Altro che psicologia. Qua si “fa” il personaggio. Si costruisce e, macinandolo, si soffre. Pensate a Marlon Brando, il quale per recitare in Uomini - Il mio corpo ti appartiene (1950, regia di Fred Zinnemann) stabilendo, tra l’altro, il record dell’esordiente già protagonista, passa mesi in ospedale al capezzale di un ufficiale americano rimasto paralizzato come Ken, il personaggio del suo film; o Jim Carrey che durante le riprese del biopic Man of the Moon (1999, di Milos Forman) sulla vita del comico Andy Kaufman rimane aggrappato a quella figura in modo tanto ostinato da farsi chiamare ufficialmente Andy anche fuori dal set, arrivando a “copiarlo” perfino oltre le indicazioni di sceneggiatura.

Storie vere, mica leggende metropolitane.  Prendiamo Christian Bale: per preparare L’uomo senza sonno (2004, di Brad Anderson) perde trenta chili bevendo caffè e mangiando mele e tonno in scatola, salvo rimettere su ciccia in fretta e furia per recitare in Batman Begins (2005, di Christopher Nolan). E Leonardo Di Caprio che, spinto verso il realismo più immediato in Revenant-Redivivo (2015, di Alejandro González Iñárritu) tra molte amenità mangia, secondo un aneddoto del Washington Post, fegato crudo di bisonte e s’infila tra le viscere d’un cavallo trafitto.

Robert De Niro tassista

Ma uno degli esempi più chiassosi, non è un segreto, riguarda Robert De Niro, vale a dire uno degli attori maggiormente coinvolti nel metodo Stanislavskij-Strasberg, capace di allenarsi mesi per governare al meglio il Jack La Motta di Toro Scatenato (1980, di Martin Scorsese), poi ingrassando un ventina di chili per raffigurarlo nella fase conclusiva della carriera; e di guidare a lungo un taxi per le strade di New York, oltre dimagrire di una decina di chili, per vestire alla perfezione i panni di Travis Bickle in Taxi Driver (1976, di Martin Scorsese). Il taxi, a quel tempo, De Niro lo guida continuamente: celebre l’aneddoto del cliente che, dopo averlo riconosciuto, si sente rispondere: “È il destino dell’attore, un giorno vince l’Oscar e un altro giorno per campare gli tocca fare il tassista”.

Di racconti, ovviamente, se ne possono far tanti. Almeno uno per ogni attore – di quelli serii, voglio dire, insomma quelli che hanno studiato davvero e non gli improvvisati – dividendosi tra i due grandi sistemi contrapposti ma, qua, con attenzione particolare a chi, come Salma Hayek, ha scelto un processo di identificazione molto speciale, nel suo caso quasi unico e diciamo addirittura doppia con Frida Khalo. Con una riflessione sulla grande capacità di autogovernarsi necessaria ad attori che altrimenti rischierebbero pesanti crisi di identità, cosa peraltro non proprio insolita. E un’altra riflessione sulla grande verità nascosta nella frase di De Niro, il quale lì per lì, forse, vuole fare solo una battuta e invece sintetizza in due secondi tutto il senso della sua immedesimazione.


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Claudio Trionfera

Giornalista, critico cinematografico, operatore culturale, autore di libri e saggi sul cinema, è stato responsabile di comunicazione per Medusa Film e per la Mostra del cinema di Venezia

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