Il sapere del web non si avvicina al sogno di Diderot
La condivisione dei contenuti è l’imperativo che corre in rete. Ma il modello culturale lanciato da Wikipedia è entrato in crisi. Perché la concorrenza delle idee non è in grado di abolire gli errori e le opinioni di parte
Condividi o muori! L’imperativo corre in rete come il nuovo verbo. È la tendenza del momento: un atto di fede nella condivisione, preghiera d’un bene assoluto, una promessa di felicità che fluttua nella comunità virtuale, questo immaginifico mondo illuminato dal sol del tecnologico avvenire. La condivisione è grande e la rete è il suo profeta.
Ma siamo davvero sicuri che il modello culturale che vi è dietro non sia in crisi? A ben guardare sembrerebbe proprio di sì. Prendiamo Wikipedia, il più grande progetto di condivisione del sapere online: non se la passa troppo bene. Il giornalista e scrittore Paul Vallely sintetizzava tutti i suoi dubbi sulla sua affidabilità più o meno con queste parole: «Consultare Wikipedia è un po’ come porre domande a un tizio incontrato al bar, potresti incorrere in un fisico nucleare oppure nel primo ubriacone un po’ matto».
Sull’attendibilità delle voci dell’enciclopedia online si discute da tempo. Da Wikipedia richiamano gli strumenti a disposizione (arbitraggi, uffici conciliazione e persino l’intervento dei wikipompieri, che orientano il dibattito e trovano accordi sulle controversie) e le procedure di convalida che permettono di correggere gli errori o sopprimere le affermazioni di parte. Eppure, qualche problema c’è.
Per esempio qualche anno fa, durante un incontro mondiale di Wikipedia a Parigi, uno dei partecipanti aveva affermato, senza alcuna traccia d’ironia, che «in fondo Wikipedia informa sulle opere che Cartesio ha scritto allo stesso modo in cui informa sugli orari del treno». Non è proprio così: l’informazione di per sé non è conoscenza. Anzi, l’informazione per l’informazione, fine a se stessa, è l’opposto dell’istruzione e del sapere.
A essere in crisi non è soltanto Wikipedia, bensì il modello culturale che sta dietro all’idea che la condivisione online, di per sé, sia un valore e un criterio di validità. Il sapere condiviso non è un trionfo di oggettività e verità. Ciò che troviamo in rete non può essere pensato come valido soltanto perché al vaglio di altri utenti. Non è vero che condividendo metto in moto la concorrenza delle idee in grado di abolire gli errori e le opinioni di parte. Quella che online viene spesso tacciata per verità altro non è che «doxa», la semplice opinione comune. Il fatto che in molti dicono una cosa produce soltanto un effetto quantitativo. La massa delle opinioni è sempre opinione, non è qualcosa che, soltanto perché moltiplicata, si avvicina di più alla conoscenza. Anche se tutti dicono la stessa cosa, non è detto che solo per questo quella cosa sia la verità.
Spesso il sapere condiviso online è considerato la realizzazione del sogno di Denis Diderot. Ma il paragone con il progetto dell’Enciclopedia, redatta nella seconda metà del Settecento da Diderot e Jean-Baptiste D’Alembert, è sbagliato per un semplice motivo: l’Enciclopedia aveva la conoscenza come obiettivo politico e sociale, Diderot la considerava (e vale tutt’oggi) una «paideia», una formazione, un’educazione del popolo. La rete invece non offre una struttura ordinata, dotata di senso di lettura, non offre un metodo di accesso.
Così si confonde la possibilità di immagazzinare e consultare informazioni con la padronanza della conoscenza, che presuppone una facoltà di giudizio critico e una capacità di ragione; ed è lecito domandarsi se non fosse più sviluppata nell’insieme della popolazione ai tempi di Diderot che non oggi. Se la rete è un’eccezionale finestra sul mondo, non significa che questa ci fornisca o ci faccia sviluppare le capacità intellettive per saperci stare e orientarsi in questo mondo favoloso.
I cantori della tecnologia a ogni costo ci dicono che ormai i cittadini sono netcitizen, sempre più connessi in un mondo dove presto tutto, beni e servizi, passeranno dalla rete. Ma l’ottica di condivisione è tutt’altro che vincente. A oggi le imprese online che funzionano, e bene, sono quelle che fanno profitto, quotate in borsa o meno.
Il copyleft, romantico esperimento sulla libera e gratuita circolazione dei prodotti intellettuali, non ha sfondato (chi si ricorda oggi, tanto per fare un esempio, il laboratorio Kai Zen, che ha pubblicato il primo romanzo copyleft della Mondadori?). Anche l’open source rimane ancora una nicchia. Il peer-to-peer funziona, ma perché ci sono interessi economici che oliano la macchina a puntino.
Insomma, i romantici tecnologici ci dicono che presto dovremo sostituire la parola proprietà con la parola accesso, la parola acquisto con la parola scambio. E magari tingono il tutto di pensosa verve marxiana, sventolando qualche «funzione» o qualche «sovrastruttura». Sarà... Rimane il fatto che Karl Marx di condivisione all’interno dei rapporti di produzione proprio non parla (e a dire il vero nemmeno la cita in merito alle forze produttive).
Per il momento a dettare le regole sono ancora logiche e dinamiche capitalistiche. Quanto alla condivisione, poi, rimane un concetto bello, alto. E soprattutto umanissimo. Non svuotiamo questa parola complicata e meravigliosa facendola diventare come una delle tante che, con noncuranza, pronunciamo di fronte a uno schermo.