telescopio spaziale Webb
Il telescopio spaziale James Webb. Nel riquadro, Giuseppe Cataldo (Nasa).
Scienza

L'italiano nel team del telescopio spaziale James Webb

Parla Giuseppe Cataldo, che lavora come capo missione alla Nasa.

C’è anche un italiano nel team che ha sviluppato il telescopio spaziale James Webb, lanciato lo scorso 25 dicembre. Si tratta di Giuseppe Cataldo, che lavora alla Nasa come ingegnere capo di missione e direttore della modellistica per la protezione planetaria. Panorama l'ha intervistato per farsi raccontare più da vicino quale sia l’importanza di questo nuovo telescopio.

Giuseppe Cataldo, mi spiega in parole semplici quali sono gli obiettivi del James Webb?

«Il telescopio James Webb è il telescopio più grande, più potente mai lanciato nello spazio finora. È un telescopio che si pone come obiettivo quello di captare la prima luce, cioè la luce delle prime stelle che si sono formate dopo la nascita dell’universo. E poi da lì cercherà di studiare come si sono formate le galassie e i sistemi planetari, fino a rispondere all’ultima domanda: c’è vita sugli altri pianeti? Arriverà pertanto a studiare pianeti al di fuori del nostro sistema solare, cercando di analizzarne proprio la composizione chimica e quindi dandoci molte informazioni nuove su questi pianeti. Questi sono in linea generale gli obiettivi scientifici del telescopio».

Come si rapporta questo nuovo telescopio a quello di Hubble?

«Webb è un telescopio infrarosso, mentre Hubble è un telescopio ottico, cioè vede le cose come le vediamo noi. Infrarosso è sinonimo di calore, Webb si concentra quindi sul calore emanato dalle stelle. Il motivo principale è legato all’espansione dell’universo. La luce delle stelle circa 13.4 miliardi di anni fa, quando esse si sono formate all’inizio dell’universo, ha cominciato a viaggiare nell’universo, fino ad arrivare qui da noi. Tuttavia, nel frattempo, l’universo si è espanso e quindi la luce si è stirata, andando a finire nell’infrarosso. Dobbiamo quindi usare l’infrarosso per captare la luce di queste stelle così lontane e antiche».

Lei che ruolo ha svolto all’interno del progetto del James Webb?

«Io mi sono concentrato fondamentalmente su due cose. Mi sono occupato del processo di validazione dei modelli matematici impiegati per quest’opera, in particolare di quelli termici che rappresentano i modelli più critici del telescopio. Poi in pratica ho fatto parte di una campagna di test del telescopio stesso, che è andata avanti per vari mesi e in cui ho dovuto gestire parte delle prove condotte sull’hardware».

Al di là dell’aspetto meramente scientifico, è ipotizzabile che questo telescopio in futuro possa servire a cose più pratiche, penso per esempio a impieghi di natura militare?

«No, il James Webb ha finalità assolutamente scientifiche. Non ci sono obiettivi militari. Certo: molte delle tecnologie che abbiamo sviluppato per il James Webb hanno trovato un’applicazione pratica nella vita di tutti i giorni. Si tratta tuttavia di applicazioni secondarie e derivate da quello che abbiamo fatto per il telescopio. Però il telescopio in sé ha obiettivi scientifici».

Oltre alla Nasa, ci sono state altre agenzie coinvolte nella realizzazione? Quanto è costata inoltre l’opera in totale?

«Oltre alla Nasa, sono state coinvolte anche le agenzie spaziali europea e canadese. Il costo si aggira in totale attorno ai 10 miliardi di dollari».

Mi pare di aver capito che, su questo telescopio, ci sia oggi un sostegno fondamentalmente bipartisan da parte dello spettro politico statunitense.

«Sì, assolutamente. Abbiamo sempre avuto un supporto bipartisan, per quanto ci siano anche state delle difficoltà. Il progetto è andato avanti per più di venticinque anni e alcune volte è stato suscettibile di cancellazione. Il Congresso ha talvolta minacciato la Nasa che lo avrebbe annullato, perché andava avanti da troppo tempo e il costo aumentava anno dopo anno. E invece, nonostante questo, abbiamo sempre avuto il supporto soprattutto di alcuni parlamentari che ci hanno veramente sostenuto tanto. Penso soprattutto all’ex senatrice del Maryland Barbara Mikulski, che ci ha protetti e difesi davanti a tutti. Il centro di controllo della missione ha preso non a caso il suo nome».

Alla Nasa si avverte a livello operativo l’avvicendarsi dei presidenti degli Stati Uniti?

«Per questo progetto, abbiamo avuto molta continuità tra tutti i vari presidenti americani e i vari direttori della Nasa (che sono nominati dagli stessi presidenti, ndr): essi hanno sempre dato un notevole supporto e non hanno mai pensato di annullarlo, anche davanti ad alcune pressioni del Congresso. I progetti scientifici generalmente non subiscono dei cambi drastici».

In questi ultimi anni si è registrato un rinnovato interesse per la Nasa da parte della Casa Bianca.

«Sì, assolutamente. Gli ultimi due presidenti americani, Joe Biden e Donald Trump, hanno aumentato notevolmente il budget della Nasa. È tornato addirittura superiore ai livelli di un tempo».

Qual è stato invece il percorso che l’ha portata alla Nasa?

«Sono arrivato attraverso una domanda per la Nasa Academy che offriva due posti a due studenti europei alla Nasa. Mi hanno selezionato nel 2009 per questo programma. Poi lo scienziato con cui avevo lavorato qui mi ha proposto di tornare nel 2010, per offrirmi in seguito definitivamente il lavoro. Inoltre nel 2009 vinsi un premio sponsorizzato dallo scienziato capo del progetto del James Webb, il dottor John Mather».

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Stefano Graziosi