«La vecchiaia dei programmi scolastici riduce la capacità di scrittura dei giovani»
Per Giuseppe Lupo, ordinario di letteratura italiana contemporanea alla Cattolica di Milano, «programmi didattici non al passo dei tempi rischiano di allontanare i giovani dalla lettura e, quindi, dall’arricchimento linguistico, causa di un’allarmante povertà culturale»
L’allarme è stato lanciato da tempo: i nostri giovani non sanno più scrivere. Dagli errori grammaticali alle difficoltà espressive, dalla carenza di idee alla difficoltà a tradurre i pensieri. Ma è pur vero che dare risposte esaustive alle problematiche legate alla carente capacita di scrittura è diventato al contempo difficile, viste le tante cause addotte. E’ vero, intanto, che i giovani di oggi hanno possibilità di comunicare con altri linguaggi (non verbali, multimediali, artistici, musicali, teatrali etc.) ma più che demonizzare intere generazioni di giovani e giovanissimi, sarebbe forse il caso di rendersi conto che la società contemporanea è quella delle nuove tecnologie e dei nuovi linguaggi, con cui la scuola è inevitabilmente chiamata a confrontarsi.
Ne abbiamo parlato con Giuseppe Lupo, ordinario di letteratura italiana contemporanea alla Cattolica di Milano per cercare di ridurre ad unità un coacervo di problemi intergenerazionali.
Professore, scrivere è diventato uno spauracchio per i nostri giovani…
«Le difficoltà che i ragazzi di oggi manifestano nell’approcciarsi al classico tema di italiano derivano da un bagaglio culturale che si è molto ristretto. Il magazzino degli attrezzi in loro possesso si è infatti ridotto in maniera preoccupante, al punto da presentarsi scarno, terminologicamente essenziale al vivere e al comunicare quotidiano, senza quella complessità del linguaggio tipica di persone che frequentano la scuola intesa come piccolo segmento sociale».
Partiamo dal linguaggio, a quanto pare.
«E’ inevitabile, direi. Il linguaggio quotidiano si è ridotto al punto che la maggioranza dei nostri ragazzi può contare su una c.d. “dieta linguistica” estremamente povera sia in termini di parole -cioè di vocaboli- che in contenuti. E’ come una dieta alimentare incentrata sempre sugli stessi alimenti: allo stesso modo la povertà linguistica non permette ai giovani di esprimersi con una terminologia ricca e adeguata ai nostri tempi, che, invece, presentano una varietà di emergenze linguistico-culturali di stampo globale».
Potremmo utilizzare anche la celebre metafora della cassetta degli strumenti…
«Esatto. In una cassetta che già contiene pochi attrezzi di lavoro, sempre gli stessi legati alla società dei padri, gli strumenti del comunicare non si sono sviluppati per come ci saremmo attesi. La terminologia, cioè non si è espansa per come accade sempre tra le faglie generazionali: dai nonni ai padri e da questi ai figli. Eppure la società si è enormemente sviluppata nell’ultimo secolo».
Professore, ci scusi, oggi qualcosa sarà pure cambiato?
«Assolutamente, perché al progresso sociale è corrisposta anche una nuova stagione delle parole, dei concetti e delle espressioni. Purtroppo lo sviluppo del linguaggio non è andato di pari passo, se ancor oggi constatiamo -ad esempio in sede di valutazione universitaria- che la dieta linguistica non sembra essere al passo con i tempi».
Lei è già approdato agli effetti, tralasciando le cause.
«Assolutamente no. Un magazzino linguistico povero è dovuto alla mancanza di arricchimento che avviene per il tramite della lettura: i nostri ragazzi leggono poco, ecco la causa scatenante. La lettura rappresenta, da sempre, il carburante migliore per l’arricchimento terminologico, capace di far compiere ai ragazzi in via di sviluppo un salto qualitativo sulla via dell’aggiornamento culturale. Se non si legge non si ha la possibilità di arricchire il proprio vocabolario, con la conseguenza che quella “cassetta” potrà contare soltanto sui soliti “vecchi arnesi” del mestiere».
Eppure la nostra società della comunicazione offre stimoli impensabili sino a qualche anno addietro!
«E’ il paradosso dei nostri tempi: avere a disposizione l’intero scibile umano a portata di click forse non stimola i ragazzi alla sua conoscenza. Quando il sapere umano delle nostre famiglie era concentrato in pesanti e polverose enciclopedie, noi ragazzi degli anni Settanta, ad esempio, eravamo costretti a passare i pomeriggi ad aprirle, consultarle, copiarle, mettendo a dura prova le nostre stesse capacità visive. Oggi con gli smartphone sul palmo della mano consultiamo i motori di ricerca a fini scolastici solo il tempo strettamente necessario per controllare la data di un evento storico, il risultato di un’equazione, la biografia di un autore».
Eppure viviamo in simbiosi con i telefonini…
«Certo, perché navighiamo su Facebook, TikTok, Instagram. O perché utilizziamo Wikipedia soltanto per controllare l’esattezza dei dati sommariamente acquisiti in classe. Manca la fase dell’approfondimento, della analisi critica, del confronto con il prossimo. Per quanto potente, un motore di ricerca non potrà mai sostituirsi al dialogo con il docente o al confronto con il collega di banco. E poi vuole mettere la gioia immediata che si prova nel “postare” una foto su Instagram rispetto all’analisi della poetica leopardiana?».
Lei appare come un avversario dei social media!
«Assolutamente no. Sono anch’io immerso nella grande mediasphera e mi rendo conto dell’assoluta qualità tecnica di strumenti che ci spingono a non poterne più fare a meno. Ma sono consapevole della semplicità del linguaggio che i giovani oggi utilizzano: è mainstream”, ovvero convenzionale, comune e dominante, venendo quindi seguito praticamente da tutti con le stesse regole, gli stessi termini, negli stessi ambiti. Insomma, un linguaggio ripetitivo, monotono, autoreferenziale».
Intanto lei parla da un osservatorio privilegiato…
«Privilegiato per il senso della nostra conversazione giornalistica, direi. Perché mi permette di poter analizzare la grande mole di problemi che si presentano al momento in cui lo studente varca la soglia delle nostre università. Sarebbe sin troppo facile addossare le colpe della problematica in analisi scaricandole sui docenti delle medie o delle superiori, ma non possiamo non accorgerci come i gradi precedenti dell’istruzione scolastica dedichino sempre meno tempo alla lettura come fonte di arricchimento del bagaglio linguistico cui accennavo».
E’ riuscito a capire perché la lettura è relegata nelle retrovie della formazione scolastica?
«L’ho capito negli anni: i programmi didattici che i ragazzi sono tenuti ad affrontare, ad esempio in quello che era il triennio del liceo classico, risultano estremamente estesi e complessi, tali da creare evidenti problemi di completezza. Chi di noi ricorda di essere arrivato a studiare e leggere gli autori a noi più contemporanei?».
L’atavico problema dello studio del Novecento, soprattutto nella sua seconda metà…
«Si continua a tralasciare lo studio dell’ultimo cinquantennio del secolo. Ci si continua a soffermare su Dante Alighieri e su Alessandro Manzoni e ad ignorare quasi gli autori che vanno da Eugenio Montale ad Antonio Pennacchi. Per non parlare di quelli del Duemila».
Docente universitario e scrittore…
«Sicuramente recupero fiducia grazie alla narrativa che mi vede attivo protagonista. Il pubblico che assiste alle presentazioni dei miei libri è evidentemente interessato a ciò che scrivo: da quando pubblicai L’americano di Celenne, nel 2001 all’ultimo Tabacco clan, qualche mese addietro, ho visto crescere anche il numero dei giovani che intervengono. Ma si tratta di un test poco attendibile per il ragionamento che stiamo seguendo, perché siamo noi stessi autori che, alla fine, ci costruiamo il pubblico a nostro piacimento. I lettori partecipano perché incontrano i propri beniamini, non perché sono obbligati da un programma di studio…».
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Giuseppe Lupo, lucano di Atella (Pz), classe 1963, è ordinario di letteratura italiana contemporanea all’Università Cattolica di Milano. Tra i romanzi, tutti pubblicati da Marsilio, ricordiamo: Breve storia del mio silenzio (2019, 2021; selezionato nella dozzina del Premio Strega), Gli anni del nostro incanto (2017, 2019; Premio Viareggio), L’ultima sposa di Palmira (2011, 2018; Premio Selezione Campiello, Premio Vittorini). Ha pubblicato inoltre L’americano di Celenne (2000, 2018; Premio Mondello, Premio Berto), La carovana Zanardelli (2008, 2022; Premio Grinzane-Carical), Viaggiatori di nuvole (2013, 2020; Premio Dessì), L’albero di stanze (2015; Premio Alassio, Premio Frontino Montefeltro), Tabacco Clan (2022). e, per Aboca, Il pioppo del Sempione (2021).Ha curato, sempre per Marsilio, Moderno Antimoderno di Cesare De Michelis (2021). È autore di diversi saggi sulla cultura del Novecento e collaboratore de Il Sole 24 Ore.