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Sequestro Moro e BR: "Panorama" e il numero speciale dopo via Fani

Come il settimanale ha analizzato i fatti dopo il rapimento. Parlano Pertini e i think tank americani. Si rilegge la storia dell'escalation delle Br

Il numero speciale di Panorama esce nelle edicole il 21 marzo 1978, a 5 giorni dalla strage di via Fani. Il direttore è Lamberto Sechi, firma l'editoriale Giuliano Amato.

Le "voci della strada" il giorno della Strage di via Fani 

Stefano Benni, che nello 1978 curava la rubrica "opinioni per la Tv" su Panorama, fa rivivere ai lettori i momenti che accompagnarono uno dei giorni più drammatici della vita della Repubblica Italiana. Voci dal mercato , drappelli nei bar davanti alle televisioni poco dopo la prima diffusione della notizia da parte di radio e televisione. Benni ci lascia la testimonianza delle voci, delle imprecazioni, delle provocazioni e in generale dello sgomento e del terrore che il rapimento di Aldo Moro, (che molti ormai consideravano il prossimo Presidente della Repubblica) aveva pervaso gli Italiani. Squillano i telefoni delle radio "libere": le voci gracchiano notizie false tipo "è vero che hanno ucciso i figli di Moro"?  ma anche "Giustizia proletaria è fatta".

Alle 10 la Rai manda le prime immagini che Benni guarda in un bar dove il silenzio e l'emozione sono rotte dalle parole di un anziano: "Quando hanno sparato a Togliatti non c'erano tutte queste cose qui…". Fuori dal bar un uomo dice di essere spaventato perché abita sopra una sezione del Pci. Un altro vuole andare a casa a vedere "la Tv Svizzera, per sapere la verità". La diffusione della notizia, quarant'anni prima di Twitter, avviene con ogni mezzo. Anche un sorpasso tra camionisti può funzionare, come raccontato da un trasportatore dell'ortomercato. Quindi al brusio continuo si sovrappone il gracchio di un altoparlante di una macchina del Pci che invita alla mobilitazione immediata dei cittadini, nel nome della solidarietà nazionale.

Mentre passano le drammatiche immagini dell'Alfetta della scorta di Moro crivellata di colpi, c'è lo spazio anche per qualche frase cinica per esorcizzare la paura: "scommettiamo che stasera in tv salta anche Scommettiamo". Allora è davvero "la fine del mondo" è la risposta.

Parla Pertini

Tutto nasce da una frase pronunciata da Ugo La Malfa poco dopo la strage di via Fani: "siamo in guerra".

E la guerra era proprio ciò che le Br volevano che lo Stato riconoscesse, argomento chiave del primo comunicato dal rapimento Moro. Il leader repubblicano è spinto dall'angoscia quando comincia a parlare di Tribunali Speciali, pena di morte, stato di emergenza nazionale. Gli risponderà Sandro Pertini, che aveva conosciuto le carceri del ventennio e le leggi speciali di Mussolini, intervistato da Panorama.

Il futuro Presidente della Repubblica e ex Presidente della Camera è naturalmente molto ferrato sull'argomento: Più che di "guerra", come paventava La Malfa, Pertini parla una di guerriglia brigatista descrivendo l'azione intrapresa dai terroristi. E sa bene per esperienza che la guerriglia può far male, molto male. Era quella unica forma di lotta possibile che il partigiano Pertini combattè fino al 1945, sconfiggendo alla fine lo Stato fascista.

Da uomo delle istituzioni democratiche se la prende con i Servizi segreti italiani, a suo avviso inefficienti nel prevenire l'agguato e il rapimento del Presidente Dc.

Il futuro Capo dello Stato dichiara la propria convinzione che dietro all'azione vi sia una mente antidemocratica, che vorrebbe far tornare indietro di 50 anni l'Italia. Nel 1972 ebbe a scontrarsi con Francesco Cossiga proprio sull'argomento. Il tono si fa quindi duro quando  Pertini esprime la convinzione che la centrale del terrorismo sia all'estero, in qualche punto nevralgico parte di una rete internazionale. Per questo "bacchetta" Cossiga, allora Ministro degli Interni per l'inefficienza nelle ricerche del covo dove Moro è nascosto.

E'pessimista, ma non abbattuto il leader socialista: ancora una volta il suo sguardo volge indietro al delitto Matteotti, quando "il delitto vinse come arma politica". Ma nel marzo 1978, dice Pertini, la situazione è molto diversa. Nessuno si era ritirato sull'Aventino. Lo sciopero di massa seguito alla strage di via Fani era un segnale della presenza del Paese, da non sottovalutare e da non abbandonare a sé stessa. La responsabilità della fiducia al governo Andreotti (pur con tutte le lacune che Pertini tiene a sottolineare) significa una risposta forte dello Stato contro le armi delle Br. Che a Pertini rievocano molti fantasmi del passato.

Il punto di vista di Botteghe Oscure

E'affidata alla parola del deputato milanese Giovanni Cervetti (1933) la reazione del Partito Comunista Italiano alla strage di via Fani. Cervetti è membro della Segreteria Nazionale del partito dal 1975 dopo essere stato segretario della Federazione milanese del Pci.

La sede nazionale del partito di Botteghe Oscure è tra le organizzazioni che per prime si muovono nelle immediate circostanze del rapimento di Moro costato la vita ai 5 uomini della scorta, facendo scattare l'"operazione periferia" cioè l'ordine di mobilitazione dei consigli di fabbrica attraverso una rete di circa 150 sedi decentrate tra Provincia e Regione.

Il punto di vista dei comunisti emerge immediatamente e si può sintetizzare dalle parole di Cervetti come l'esito di un'azione delle forze reazionarie internazionali nella scia inaugurata nel 1969 con la strage di Piazza Fontana e proseguita nella "strategia della tensione". Il colpo di acceleratore dell'azione terroristica nel caso del rapimento Moro, secondo i dirigenti del Pci, sarebbe stato causato proprio dalla crescita elettorale inaugurata dalle politiche del 1976 e proseguita nell'avvicinamento alla Dc voluto e promosso dallo stesso Presidente democristiano. Nessun intervento esterno da parte di Mosca, che non avrebbe avuto motivo di colpire le istituzioni italiane nel momento di massimo favore di un partito membro dell'Internazionale comunista.

Dall'intervista non emerge immediatamente la futura linea della fermezza che caratterizzerà la posizione del Pci di Enrico Berlinguer lungo i 55 drammatici giorni della prigionia di Moro. A poche ore dal rapimento le parole di Cervetti riecheggiano ancora un linguaggio "sinistrese": il ruolo primario del Pci di fronte all'attacco al cuore dello Stato avrebbe dovuto essere quello di organizzare "un grande contatto di massa del partito alimentando costantemente la discussione sulle radici e le azioni del terrorismo".

Visto dagli Stati Uniti

La parola ai think tank americani della Rand Corporation di Los Angeles: risponde alle domande di "Panorama" Brian Jenkins, uno dei massimi esperti di terrorismo internazionale. Sull'addestramento militare del commando di via Fani Jenkins allontana subito ogni ipotesi di coinvolgimento dei Servizi delle due grandi potenze della Guerra Fredda. Nè CIA nè KGB, forse i Palestinesi. Anche perché ci sarebbe il precedente dei terroristi tedeschi del gruppo Baader Meinhof (poi RAF) addestrati dai Palestinesi e autori dell'attacco al villaggio olimpico di Monaco di Baviera nel 1972.

Gli esperti americani non escludono neppure la possibilità di un intervento dei Nordcoreani nell'appoggio logistico alle operazioni dei terroristi rossi in Europa. Se Jenkins e Robert Kupperman (esperto di terrorismo e consigliere dell'Us Arms Control and Disarmament Strategy) si dicono convinti del non coinvolgimento dei Servizi Segreti americani nel caso Moro, altrettanto ritengono per quanto riguarda una ipotetica azione del Kgb, condivisa da parte dell'opinione pubblica di destra in Italia, in funzione di contrasto all'"eurocomunismo" del Pci di Berlinguer. Secondo gli studiosi californiani l'Italia del 1978 sarebbe stata molto lontana dal Cile di Allende di 5 anni prima: quindi niente implicazioni delle grandi potenze. E in chiusura di intervista una dichiarazione non poco inquietante, se letta 40 anni dopo e se inquadrata nelle primissime ore che seguirono il rapimento di una delle figure più importanti della politica italiana del dopoguerra. "D'altra parte- dichiarava Michael Ledeen (consigliere di Kissinger) è difficile ipotizzare che atti come l'operazione Moro possano provocare svolte determinanti nella politica italiana". Ma per ammissione stessa degli esperti americani, le Brigate rosse erano state attentamente studiate negli ultimi mesi come uno dei 53 gruppi terroristici da prendere in seria considerazione, anche per i suoi possibili legami internazionali. Ma solamente con altre organizzazioni terroristiche internazionali: impermeabili ai Servizi occidentali.

Un legame con i "compagni" tedeschi?

Quando Moro viene rapito, le Brigate rosse sono già entrate in una seconda fase organizzativa, quella successiva a Curcio e Franceschini già in carcere dal settembre 1974, rappresentata dalla leadership strategica di Mario Moretti.

La prova dell'esistenza di legami con i terroristi tedeschi della Baader-Meinhof era emersa alla scoperta del covo di Robbiano di Mediglia (a pochi chilometri a Est di Milano) il 15 ottobre 1974 in seguito allo scontro a fuoco che costò la vita al Maresciallo dei Carabinieri Felice Maritano. In un opuscolo in tedesco appariva la foto di Pietro Bertolazzi, uno dei capi storici delle Br. Segno che qualcosa stava cambiando nelle relazioni dei terroristi rossi, e che la diffidenza dovuta alla prima impostazione leninista e operaista dei vecchi capi stava cedendo il passo ad una idea di internazionale del terrorismo che avrebbe prediletto l'azione di piccoli nuclei di guerriglieri al posto della grande sollevazione delle masse proletarie. Le azioni dei "Tupamaros" italiani furono forse lette in una chiave sbagliata, specie nel caso dell'azione più importante dopo via Fani, il rapimento del Procuratore Generale Mario Sossi. L'azione terminata con il rilascio dell'ostaggio dopo un "processo" non sarebbe tanto servito ad ottenere il rilascio dei terroristi del gruppo XXII ottobre, bensì a testare la reazione degli organi dello Stato prima di sferrare il "colpo al cuore" del 16 marzo 1978.

Pochi giorni dopo Sossi i brigasti alzavano il tiro e uccidevano per la prima volta due militanti nella sede del Msi di Padova, provando in questo caso l'efficacia delle armi. Secondo il pm Emilio Alessandrini, che morirà nel 1979 sotto il piombo di Prima Linea, le Br della seconda generazione erano molto pericolose perché dotate di una rete capillare di "irregolari" ben coperti e difficilmente individuabili in grado di colpire rapidamente dappertutto. In questo nuovo corso, la Raf (Rote Armee Fraktion) tedesca era indubbiamente il modello di riferimento.

Tornando al manuale ritrovato a Robbiano di Mediglia, si nota come diversi contenuti si ritrovino poi nel comunicato n.1 seguito di due giorni al rapimento di Aldo Moro: la centralità della Dc come obiettivo da colpire e l'analisi della storia dei partito da De Gasperi in poi. Esiste tra le righe dell'opuscolo il riferimento all'internazionalismo della lotta armata contro quella che i brigatisti considerano allo stesso modo un'organizzazione di potere transnazionale: Lo Stato Imperialista delle Multinazionali (SIM) citato poi continuamente nei comunicati redatti nel corso dei 55 giorni del sequestro Moro. Qualcuno parla di legami con le frange più oscure del terrorismo arabo-palestinese in un momento di grave tensione del Medio Oriente. Qualcuno invece, come l' avvocato esperto di terrorismo Giannino Guiso, parla addirittura di preparazione sotterranea alla terza guerra mondiale.

Archivio Panorama
Il frontespizio del manuale delle Br ritrovato a Robbiano di Mediglia (Milano) nel 1974

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Edoardo Frittoli