Sequestro Moro: il nodo del 18 aprile. La storia e le foto
La scoperta del covo romano di via Gradoli, (presagita anche da una seduta spiritica) e il falso comunicato del Lago della Duchessa. Un punto di svolta verso l'esito tragico del caso Moro
La giornata del 18 aprile 1978 è considerata uno spartiacque durante i 55 della prigionia di Aldo Moro per tre fatti accaduti quello stesso giorno: il ritrovamento del falso comunicato n.7 a firma delle Brigate Rosse, della scoperta del covo di via Gradoli, 96 a Roma e per l'intervento delle Forze dell'ordine presso il Lago della Duchessa, dove il falso volantino avrebbe indicato la presenza del cadavere del Presidente della Democrazia Cristiana rapito il 16 marzo precedente in via Fani.
Le Brigate Rosse alzano il tiro
Durante il primo mese di prigionia dello statista barese, era emerso quanto inadeguati fossero stati le indagini e i conseguenti interventi di Polizia e Carabinieri nelle ricerche della prigione di Moro.
Le Brigate Rosse avevano fatto ritrovare il 6° comunicato in cui si dichiarava per la prima volta la "condanna a morte" per il prigioniero. Era il 15 aprile 1978. Un colpo di acceleratore dei rapitori a fronte di uno Stato che brancolava nel buio e tra le pesanti polemiche da parte di molti esponenti politici nei confronti della gestione della crisi da parte del Ministro dell'Interno Francesco Cossiga.
Le Brigate Rosse gettano l'amo: il falso comunicato del Lago della Duchessa
Ma il peggio doveva ancora venire: a soli tre giorni dal ritrovamento dell'ultimo comunicato viene trovato in piazza Belli a Roma un altro messaggio a firma BR. Fatto singolare, perché i precedenti messaggi erano stati recapitati a distanza di circa una settimana l'uno dall'altro. Fu dato per autentico dagli esperti, ma in realtà il volantino si presentava ben diverso da tutti i precedenti. Era stato consegnato soltanto a Roma, e non nelle principali città d'Italia tramite le redazioni dei quotidiani; il foglio era fotocopiato (e non ciclostilato come gli altri) di formato inferiore.
I caratteri e la sintassi erano totalmente differenti, il testo era breve e scarno: non vi erano proclami ideologici scritti in un italiano più che corretto, bensì poche e macabre parole sul presunto "suicidio" di Moro, il cui cadavere sarebbe stato gettato nel fondale "limaccioso" del Lago della Duchessa, uno specchio d'acqua a oltre 1,800 metri di quota al confine tra Lazio e Abruzzo. Il comunicato scatena il putiferio al Viminale, Cossiga è uno dei più convinti dell'autenticità del messaggio. Parte così la spedizione al lago montano, allora ricoperto da uno spesso strato di ghiaccio che gli artificieri fanno saltare con il tritolo. Saranno i sommozzatori che, dopo l'immersione nelle acque gelide del laghetto confermeranno la falsità delle dichiarazioni contenute nel comunicato.
Nessuna traccia del cadavere di Aldo Moro, soltanto gli effetti di una trappola alla quale le istituzioni avevano abboccato in toto. Invece di aver visto affiorare il corpo di Moro, emerse la cruda verità: a cinque settimane dal rapimento, le indagini erano più o meno al punto di partenza. Nonostante ciò, Cossiga pronunciò solo poche e inconcludenti parole dopo i fatti cruciali di quel giorno.
Il secondo colpo di scena di quel martedì 18 aprile 1978 fu la scoperta "casuale" del covo delle Brigate Rosse di via Gradoli, 96 a Roma. Fu un allagamento dovuto al rubinetto di una doccia lasciato aperto ad attirare l'attenzione su un anonimo appartamento della zona Cassia.
I Vigili del Fuoco, dopo aver sfondato la porta, trovarono nei locali allagati un arsenale e una quantità notevole di documenti quasi fossero stati appositamente messi in mostra. Nessuno degli occupanti di quell'appartamento era presente e nessuno fu in seguito individuato o arrestato. Lo spiegamento di forze accorse sul posto fu enorme, cosa che con tutta probabilità mise in allarme gli occupanti che non vi fecero più ritorno.
La casa, un trilocale di modeste dimensioni in un palazzo piccolo borghese, era stato affittato all'Ingegner Mario Borghi, alias Mario Moretti. Il capo delle Br della colonna romana aveva abitato l'appartamento assieme alla compagna Barbara Balzerani. Entrambi erano stati parte attiva nel sequestro di via Fani. Nessuno di loro sarà rintracciato dopo l'irruzione spettacolare delle Forze dell'Ordine.
Fatto ancora più inquietante emerso già due settimane prima del ritrovamento del falso comunicato n.7 e diffusasi come voce di corridoio negli ambienti parlamentari della Dc, fu la notizia della seduta spiritica svoltasi la sera del 3 aprile nella casa di campagna di Zappolino (Bologna) di proprietà di Alberto Clò, allora professore universitario e in seguito ministro dell'Industria nel governo Dini.
Con lui anche erano altre due figure di primissimo piano della politica italiana dei decenni successivi: Romano Prodi e Mario Baldassarri. Il gruppo, all'epoca parte del corpo accademico dell'università di Bologna, decise di evocare gli spiriti di due padri della Democrazia Cristiana perché rivelassero la posizione della prigione di Aldo Moro: Giorgio La Pira e Don Luigi Sturzo.
Il piattino, girando vorticosamente, compose la parola Gradoli, che fu intesa come nome di un piccolo comune in provincia di Viterbo e non come il toponimo della via di Roma, che neppure fu preso in considerazione. Giunta alle orecchie degli inquirenti, la risposta degli spiriti si tradusse in una retata nel piccolo centro, naturalmente senza esito e con gran pubblicità e dispiegamento di quelle forze di Polizia già messe a dura prova dai giorni di frenesia isterica che seguirono il rapimento del Presidente Dc. Un altro passo falso del Viminale, che fece crescere il sentimento di sfiducia degli Italiani e l'acuirsi della tensione tra le forze politiche.
Il nodo del 18 aprile fece sì che la frattura tra i favorevoli alla trattativa e i fautori della linea intransigente divenisse ancora più netta. Ad aggravare il momento contribuì decisamente la sempre più netta sensazione di un prossimo sacrificio di Aldo Moro. A suggellare quel cupo presentimento contribuirà il comunicato n. 7 (quello vero) ritrovato il 20 aprile 1978 in una busta arancione in via dei Maroniti. Allegata, la seconda foto di Moro: quella in cui il prigioniero è fotografato con il numero de La Repubblica del 19 aprile. Per la prima volta i rapitori impongono un ultimatum di 48 ore e lo scambio con i brigasti in carcere per la vita di Moro.
I giorni dell'angoscia: Le Br continuano a colpire
I giorni che seguiranno saranno carichi di angoscia: sulle pagine di periodici e quotidiani si parlò apertamente di un possibile colpo di Stato da parte della destra con lo scopo di "ristabilire l'ordine", sullo stile di quello dei Colonnelli in Grecia.
Altre voci paventarono un rafforzamento dei brigatisti dopo i fatti del 18 aprile. Questi ultimi ebbero una conferma il 20 aprile 1978 quando a Milano le Brigate Rosse del colonna Walter Alasia colpiscono a morte e in pieno giorno Francesco di Cataldo, Maresciallo Maggiore capo degli Agenti di Custodia del Carcere di San Vittore, rivendicando poco dopo l'omicidio di un "torturatore e assassino dei compagni in carcere".
In realtà Di Cataldo si era sempre distinto per la propria umanità, riconosciuta dagli omaggi successivi alla sua morte da parte di molti detenuti di san Vittore. Nonostante le molte minacce di morte ricevute non gli fu mai assegnata una scorta, rendendolo un obiettivo "facile". Proprio come era avvenuto nel caso di Aldo Moro e dei cinque agenti della sua scorta, privi dei mezzi adeguati per proteggersi dai nemici del progresso delle istituzioni democratiche italiane.
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