Serviamoci della condivisione, ma attenti a non diventarne schiavi
Viviamo nell’epoca della comunicazione istantanea e accessibile, ma non sempre ci ricordiamo che la riflessione e la critica restano prioritarie
Viviamo nell’epoca della comunicazione istantanea e dell’accessibilità totale, ma non sempre ci ricordiamo che la pazienza, la riflessione, la critica restano prioritarie rispetto alla condivisione.
«Cogli l’attimo», raccomandava Orazio nell’ode undicesima, e Lorenzo de’ Medici, nella Canzona di Bacco, esortava: «chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza». Quindici secoli dividono il grande poeta dell’età di Augusto dal nobile signore fiorentino, ma come diceva lo scrittore Aldous Huxley, i problemi fondamentali dell’uomo restano immutati nel tempo. Oggi viviamo la condizione della comunicazione istantanea e dell’accessibilità totale con un’intensità che non ha precedenti, ma se già un poeta del I secolo a.C. invitava a fermare il flusso degli eventi, a non lasciarsi travolgere dalle urgenze della vita pubblica, e a strappare – questo alla lettera il significato del latino carpere – un attimo di pace per sé soli, vuol dire che il bisogno di vivere il singolo momento è radicato nella specie umana in quanto tale.
Non stupisce che nell’epicentro del mondo interconnesso, gli Stati Uniti, che devono la loro supremazia non solo alla potenza economica ma anche, e forse in misura maggiore, alla capacità di autocriticarsi, i media più autorevoli come il New York Times discutano animatamente se vivere sempre “irretiti” sia un bene o un male. I pro e i contro sembrano bilanciarsi: la condivisione consente di conoscere e far conoscere esperienze che altrimenti resterebbero singole e private; d’altronde, la dimensione del privato non è quella che costituisce e caratterizza l’individuo, la sua preziosa differenza? Che senso ha una comunità in cui tutti i membri pensino e dicano le stesse cose, a causa di una condivisione compulsiva, istantanea, che finisce per omogeneizzare le menti e formattare i vissuti attraverso i filtri di un’app?
Se ci troviamo a una cena, o ci godiamo la vista di un mare placido in vacanza, o qualunque altro istante di cordialità o di benessere emotivo, mettere mano allo smartphone per condividere quel vissuto può spesso essere un’esperienza negativa, frustrante, specie quando ci accorgiamo che i destinatari della foto o del filmato non sono interessati. Condividere è uccidere attimi belli per donarli a terzi, a cui spesso non frega nulla di quel dono.
Per fortuna l’uomo sembra essere dotato di un meccanismo psicologico infallibile, che lo preserva dal rischio di dissolversi nel grande mare della condivisione globale. È l’opposto di quello che gli psicologi chiamano istinto o comportamento del gregge: fino a una certa misura, la condivisione di un contenuto suscita curiosità, interesse, che cresce con l’aumentare della sua diffusione. Ma, proprio come una canzone quando la si è ascoltata troppo; o una parola, un concetto, quando l’uso lo trasforma in un cliché, il contenuto condiviso perde smalto, viene a noia, sazia e genera perfino opposizione. E spesso il suo ciclo vitale è tanto più breve quanto più il suo scopo era quello di trasformarsi in trending topic, in tendenza di moda.
In un certo senso, possiamo pensare quindi allo sharing come alle macchine al tempo di Marx: come ammoniva il filosofo tedesco, il rischio sta nell’alienazione, cioè nel divenire servi della macchina (della condivisione) anziché di servirsene. I momenti prima e dopo la condivisione sono quelli veramente importanti ed essenziali, è in questi momenti che ci riconosciamo come individui, con un tempo proprio, liberi di aprire la porta delle nostre esperienze agli altri, ma anche di tenerla chiusa. Con la stessa disinvoltura con la quale siamo liberi, a una festa, dopo aver presenziato il giusto per non risultare sgarbati, di andare via quando vogliamo, senza per questo dover temere di risultare asociali.