Lo "strano" silenzio di Obama su Kamala Harris
Nonostante i numerosi endorsement finora ricevuti, la vicepresidente deve ancora ottenere quello di Barack Obama. Per quale motivo?
È vero: il Partito democratico statunitense sta dando sfoggio di unità attorno a Kamala Harris dopo il ritiro di Joe Biden. Sono numerosi e importanti gli endorsement che la vicepresidente ha ricevuto per diventare la nuova candidata presidenziale dell’Asinello. Eppure sul suo futuro politico aleggia, vagamente inquietante, il silenzio di Barack Obama. Finora, l’ex presidente dem non ha dato il proprio appoggio alla Harris. C’è chi dice che voglia restare super partes. Interpretazione difficile da credere tuttavia, visto che Obama non ha mai rinunciato ad avere un peso politico significativo all’interno dell’Asinello da quando ha lasciato la Casa Bianca.
Non solo. Lo stesso Obama ha svolto un ruolo fondamentale nello spingere Biden a farsi da parte. Tutto è iniziato a giugno dell’anno scorso, quando – durante un pranzo alla Casa Bianca – l’ex presidente iniziò un’attività di moral suasion per convincere il suo ex vice a fare un passo indietro. Poi, nei mesi successivi, l’entourage di Obama, a partire dall’ex senior advisor David Axelrod, ha cominciato a cannoneggiare Biden: un cannoneggiamento, intensificatosi a seguito del disastroso dibattito televisivo del 27 giugno scorso.
Certo, Obama era stato il grande sponsor di Biden alle primarie dem del 2020. Tuttavia, il suo appoggio non fu dovuto a motivi di simpatia. Obama, in quel frangente, aveva bisogno di un candidato fondamentalmente grigio per raggiungere due obiettivi. Primo: compattare gran parte dell’Asinello contro la candidatura di Bernie Sanders. Secondo: consentire un’efficace lottizzazione delle poltrone in seno a un'eventuale nuova amministrazione dem. Non a caso, nel gabinetto di Biden alcuni obamiani di ferro hanno assunto ruoli apicali: basti pensare al segretario al Tesoro, Janet Yellen, o al capo del Pentagono, Lloyd Austin. E attenzione: Obama sostenne Biden nonostante fosse chiaro, già nel 2020, che l’attuale presidente avesse dei problemi di natura psicofisica (era l’agosto di quell’anno quando l'allora candidato dem rifiutò pubblicamente di sottoporsi a un test cognitivo).
Poi è successo l’inevitabile. Le condizioni di Biden sono peggiorate ulteriormente. E il rischio della debacle elettorale si è fatto sempre più concreto. Obama ha quindi cominciato le sue manovre di siluramento, scontrandosi con i famigliari del presidente, che non ne volevano sapere di un suo passo indietro. Alla fine ce l’ha fatta, ma adesso si trova davanti a una (possibile) candidata a lui sgradita: l'ex presidente dem sa infatti molto bene che la Harris è una figura impopolare, che si è tra l’altro rivelata impalpabile come vicepresidente. Probabilmente Obama auspica una discesa in campo del governatore della California, Gavin Newsom, che è stato più volte elogiato da Axelrod a partire dal 2022. Quello stesso Axelrod che, guarda caso, domenica aveva invocato un “processo aperto” per sostituire la candidatura di Biden.
Senza dubbio, scalzare la Harris sarà difficile per Obama a questo punto. La vicepresidente ha ricevuto i pesanti endorsement di Nancy Pelosi e di Hillary Clinton. Avrebbe inoltre già blindato oltre 500 delegati, senza trascurare che, se fosse lei la candidata, potrebbe direttamente usufruire dei fondi della campagna di Biden. Sono quindi in corso trattative sotterranee in seno all’establishment dem. Se Obama non dovesse spuntarla, potrebbe cercare di avere voce in capitolo sulla scelta del running mate della Harris (sempre ammesso che quest’ultima ottenga alla fine la nomination). Vedremo come si svilupperà la faccenda. Resta comunque per ora il fatto che l’unità ostentata dal Partito democratico è soltanto di facciata. E che crepe significative si registrano sotto la superficie.