Schwazer e gli altri, campioni fragili davanti al doping
La confessione di Alex come gli choc per Pantani, Riccò, Basso e tanti altri. La storia dei campioni italiani fermati da un controllo
Forti e fragili, capaci di grandi imprese e nudi di fronte alla sfida più difficile. Troppe volte i talenti italiani si sono persi per non essere riusciti a dire no al demone del doping. Una maledizione che ha troncato carriere e sconvolto esistenze anche quando lo sport ha deciso di concedere una seconda chance.
Alex Schwazer lo ha ammesso candidamente: "Volevo essere più forte per questa Olimpiade, ho sbagliato... La mia carriera è finita". Più forte dei dubbi di non poter garantire lo stesso sorriso di Pechino, la medaglia d'oro che impreziosiva la sua storia di uomo e atleta e che si era lentamente trasformata anche nella sua maledizione.
Da quel giorno Alex aveva inseguito se stesso con ostinazione e risultati altalenanti: fuori per dolori di stomaco ai Mondiali di Berlino 2009, argento agli Europei di Barcellona nella 20 km e poi di nuovo bloccato dai muscoli nella 50. E' nel caldo di Barcellona che confessa la sua debolezza: "In questo sport devi essere umile, avere voglia di spaccare il mondo, ma per me dopo i Giochi tutto è scontato. Non mi diverto più...". Era il 30 luglio 2010. Due anni esatti dopo, il 30 luglio 2012, il controllo a sorpresa della Wada a Oberstdorf ha portato alla luce la sua scelta scellerata.
Forte e fragile al tempo stesso. Incapace di reggere la pressione. Un filo rosso che unisce altri casi clamorosi di doping all'italiana. Come la fuga da Madonna di Campiglio di Marco Pantani nel maggio 1999: ematocrito troppo alto nel suo sangue. Fine della carriera malgrado per il 'Pirata' non ci fu mai nessuna squalifica ma solo una sospesione. Mai ammise pratiche illecite, ma la sua parabola discese fino alla morte per overdose nel febbraio del 2004.
Oppure ancora Riccardo Riccò, bello e maledetto. Il talento che visse solo due mesi: due vittorie al Giro e due al Tour prima dell'irruzione della gendarmerie francese nell'hotel della Saunier Duval, la scoperta di Cera (Epo della terza generazione) nelle sue urine e la vergogna in mondovisione. Due anni di squalifica e nel febbraio del 2011 il drammatico malore con ricovero in ospedale e la confessione, poi ritrattata, di un'autoemotrasfusione fatta male: 12 anni di stop e addio sogni di gloria malgrado patetici tentativi di restare nel mondo delle due ruote.
Fermarsi alla vigilia dll'appuntamento della vita non è un'esclusiva di Schwazer. Accadde anche al campione italiano del lancio del disco Luciano Zerbini nel 1993 poco prima di volare a Stoccarda per i Mondiali. O ad Andrea Baldini nel 2008 a pochi giorni dai Giochi di Pechino: positivo a un diuretico e al suo posto parte Cassarà per decisione del Coni. Baldini accusa il compagno di averlo sabotato e ne esce 'pulito' ma le Olimpiadi sono perse.
L'incubo del Coni a Londra era la figuraccia rimediata con Davide Rebellin a Pechino: argento nella prova in linea ritirato a mesi di distanza dopo le controprove dei laboratori della Wada. Era già capitato nel 1984 a Los Angeles con il quarto posto di Giampaolo Urlando nel lancio del martello; era finito quarto ma il doping cancellò tutto. Anche per questo a Londra non c'era Filippo Pozzato: doveva essere il capitano della nazionale di Bettini ma a toglierlo dai convocati è bastata la richiesta di squalifica per rapporti con un medico 'bandito' dalla federazione.
Il ciclismo resta l'anello debole del sistema. L'elenco dei big caduto nella rete dei controlli è lungo: c'è Ivan Basso incastrato nell'Operaciòn Puerto del 2006 e poi tornato a vincere un Giro d'Italia. C'è Danilo Di Luca, fermato per tre mesi all'apice della sua carriera quando era il numero uno della classifica Uci: per lui niente Mondiale di Stoccarda nel 2007.
Ora Alex Schwazer e le sue debolezze. Dopo Pechino era stato sui giornali quasi più per la storia d'amore con la bella e famosa Carolina Kostner che per i risultati sportivi. A 27 anni continuava però a essere considerato la punta di diamante dell'atletica azzurra. Lui e Donato erano le uniche speranze di medaglia a Londra. C'erano aspettative che non ha retto. "Non ci sono giustificazioni. A 28 anni si è uomini, non più ragazzi. Alex deve crescere e cambiare vita" gli ha mandato a dire Michele Didoni, il tecnico che dal quel giorno a Barcellona ha lavorato per restituirgli la goia di marciare e ora si sente tradito come e più degli altri: "Continuava a ripetere puerilmente "mi prendo tutte le responsabilità", senza capire che il suo gesto individuale ricadrà su tanti".