Suonare insieme per camminare verso la pace
Agli Incontri in Terre di Siena, l'esibizione di 4 giovani strumentisti della Polyphony Youth Ensemble: due arabi e due israeliani
Si guardano fra loro, questi quattro ragazzi, come se aver davanti degli stranieri che fanno domande non fosse normale, come se non ci fossero arrivati sulle proprie gambe al locale stireria della grande villa che ospita il loro concerto, dove ci è stato concesso di incontrarli in una pausa delle prove: ma sparati da un teletrasporto mentre suonavano, senza che fosse stato loro chiesto il permesso.
Tal First, 20 anni, Ella Bukszapan, 19 anni, Jeries Saleh, 16, Mahdi Saadi, 21, due ebrei e due arabi di Israele, stanno per suonare, in quartetto con l’aggiunta del pianista Saleem Ashkar, che si esibirà anche da solista con tre sonate di Beethoven. Eseguiranno il Quintetto in Sol minore op. 57 di Sostakovic e alcuni estratti dall’opera “The named angels” di Mohammed Fairouz. Ci troviamo al Cortile di Fattoria, in una frazione chiamata La Foce, un bellissimo scorcio delle colline toscane in Val D’Orcia, a poco da Chianciano. Qui, e in una manciata di altri posti incantati a una ventina di minuti di distanza l’uno dall’altro, si sta svolgendo il festival di musica classica Incontri in Terra di Siena, alla 28esima edizione.
Non è tanto questo che troviamo interessante, il posto, le sonate. Tal ha posato il suo violino, uno strumento che sembra stazzonato, di fianco a un ferro da stiro. Invece è un pregiato Pollastri, che gli è stato prestato dal proprietario Yehudi Zisapel. Così, il violoncello del 1928 di C. G. Steward, affidato a Saadi dall’America-Israel Cultural Foundation, poggiato come una scopa a un tavolone da frati che occupa quasi tutta la stanza, scivola di lato e tocca terra, la corda del La emette un lamento, Saadi si precipita al capezzale, non è successo niente, non si è rotto, meno male. Ecco, ogni cosa che succede, in questa stireria, sembra in qualche modo deformata. Fra loro, anche i due arabi, parlano ebraico, con i giornalisti masticano un discreto inglese, ma con questi stranieri non hanno intenzione di parlare della loro orchestra, la Polyphony Youth Ensemble. “Sì, siamo arabi ed ebrei che suonano insieme”, “Sì, la musica è un’occasione per crescere insieme e conoscerci senza pregiudizi”, “No, commenti su come si vive in Israele non ne abbiamo, ci interessa solo suonare”. A nessuno importa che Tal sia arruolato nell’esercito (va bene, anche lì come musicista).
Anche il loro modo di suonare in orchestra è sghembo: “Non c’è nessun brano musicale che possa fare da colonna sonora alla storia d’Israele. Il quartetto, però, rappresenta ciò che Israele dovrebbe essere, senza direttore d’orchestra”.
A proposito dell’orchestra, la Polyphony è l’ensemble dell’omonimo conservatorio, che ha sedi a Nazareth e Jaffa. L’idea è venuta a Nabeel Abboud-Ashkar, violinista e fratello del pianista Saleem che suona con i quattro ragazzi. Entrambi sono musicisti affermati, ex-allievi della celebre West-Eastern Divan Orchestra (fondata nel ’99 da Edward Said e Daniel Barenboim). Saleem (classe 1976) ha debuttato a 22 anni alla Carnegie Hall di New York, ha inciso due cd con Riccardo Chailly per Decca, ha concerti e collaborazioni in tutto il mondo. Nabeel, violinista, più giovane di due anni, è direttore artistico della scuola e nel 2012 ha ricevuto il premio Yoko Ono Award for Courage in the Arts.
Il conservatorio è nato dieci anni fa, a Nazareth, con soli 25 studenti (oggi, sono oltre 140), non solo per favorire l’incontro e la pace fra i due popoli, ma anche per dare ai giovani arabi di Israele pari opportunità di studiare musica, “visto che lo Stato stanzia la maggior parte dei fondi per gli studenti ebrei”. Dei fondi per la sussistenza dell’iniziativa, spiega Nabeel, il 20% viene dal governo, l’80% viene da donazioni e dai ricavi della loro attività. L’intento - prosegue Nabeel - è quello di far comunicare arabi ed ebrei: in patria hanno scuole, luoghi d’incontro, attività commerciali, completamente separati. La musica classica è l’unico territorio neutro, dove è possibile far la differenza, almeno ad alti livelli: se il tuo “nemico” fa bene con uno strumento in mano e la tua stessa partitura, smette di essere il tuo nemico: se uno suona come te vuol dire che è come te. Questo s’intende quando si parla del potere della musica: essere motore del cambiamento sociale. Saleem aggiunge: “Quello che facciamo non è simbolico o cosmetico, ma un lavoro serio, nel migliore interesse dei giovani e dell’insegnamento”. A Nazareth pare che ce l’abbiano fatta, se i ragazzini rispondono “non ce ne frega nulla dei brani, a noi interessa parlarci”, desacralizzando spartiti di Sostakovic e Beethoven, come se invece di un violino avessero in mano una cazzuola, come se invece di eseguire concerti e sinfonie, avessero cementato mattoni. Il violino risponde al loro bisogno di sopravvivenza.
Ecco, anche questo è sghembo. Ci si aspetterebbe che, in tournée all’estero, almeno come lezioncina da dare in pasto ai curiosi e ai cronisti, si fossero esercitati a eseguire in pubblico anche la partitura della consapevolezza, del ben volere e del meglio agire, che le nuove generazioni bla bla, superare i pregiudizi, abbattere i muri, dare un messaggio in questo tempo di guerra globale... Niente, invece. Proprio come poco o niente, di politico o di aggiornato, abbiamo ascoltato alla Giornata Mondiale della Gioventù a Cracovia (fra il 26 e il 31 luglio scorsi), dalle interviste prese all’impronta in attesa dell’arrivo del Papa: “Siamo preoccupati ma siamo anche qui tutti insieme per rivendicare il nostro diritto alla felicità e al divertimento”; “Dobbiamo pregare e alimentare la speranza”, e via così.
Anche questo, soprattutto questo è economia di guerra: reagire al disagio e alla paura - invece che con quella mezza resa a la page della “resilienza” - mischiando, imprigionando, come ragni con la tela, il disagio e la paura alla vita normale, che sia la spesa al supermercato come la musica classica o gli incontri a suon di violini con il “nemico”. I ragazzi che con le loro risposte avulse sembrano cretini sono già arrivati per istinto dove alcuni saggi sono arrivati per ragionamento; e dove - se il conflitto continuerà abbastanza a lungo - arriveranno, per forza o per inerzia, anche tutti gli altri.