Panorama
Apple TV+ ha condiviso con i fan il teaser della nuova comedy The Studio, con protagonista Seth Rogen, che è anche sceneggiatore, regista e produttore esecutivo insieme al candidato all'Emmy Evan Goldberg. La nuova serie farà il suo debutto il 26 marzo con i primi due episodi (sono 10 in totale), seguiti da un episodio ogni mercoledì fino al 21 maggio.
Trama
Seth Rogen interpreta Matt Remick, il nuovo capo dei Continental Studios in crisi. In un settore in cui i film faticano a rimanere vivi, Matt e il suo team di dirigenti in lotta combattono le proprie insicurezze, mentre si scontrano con artisti narcisisti e con i vili proprietari dell'azienda nella ricerca sempre più effimera di realizzare grandi film. Indossando il vestito buono che maschera un infinito senso di panico, ogni festa, set visit, decisione sul casting, riunione marketing e premiazioni offre loro l'opportunità di un successo scintillante o di una catastrofe che pone fine alla loro carriera. Da persona che mangia, dorme e respira cinema, Matt ha inseguito questo lavoro tutta la vita e ora potrebbe distruggerlo.
Cast
“The Studio” riunisce un cast stellare che comprende anche la vincitrice di Emmy, SAG e Golden Globe Catherine O'Hara, la candidata all'Emmy Kathryn Hahn, Ike Barinholtz e Chase Sui Wonders. Il candidato all'Oscar e vincitore di un Emmy Award Bryan Cranston apparirà invece come guest star.
Prodotta da Lionsgate Television, “The Studio” è creata dai vincitori di più Emmy Peter Huyck e Alex Gregory insieme a Rogen, Goldberg e Frida Perez. James Weaver, Alex McAtee e Josh Fagen della Point Grey Pictures sono anche produttori esecutivi insieme a Rogen e Goldberg.
Il nuovo progetto segue l'ultima collaborazione tra Apple TV+ e Rogen, la comedy Apple Original “Platonic”, recentemente rinnovata, in cui Rogen è protagonista e produttore esecutivo insieme a Rose Byrne.
TUTTE LE NEWS DI TELEVISIONE
Vuole chiudere con le guerre, ridurre il potere cinese e liberarci dal «woke». Siamo sicuri che sia lui a sbagliare?
Dunque, il mondo è in pericolo dopo l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca e il suo discorso, definito «inquietante» da tanti? Proviamo a ragionare con la mente sgombra e i piedi per terra, partendo dalla realtà, oltre le opposte retoriche. Veniamo da un biennio in cui abbiamo rischiato davvero la guerra mondiale, con due laceranti conflitti che hanno insanguinato il crinale tra Oriente e Occidente, a nord e a sud. Con una serie di effetti a cascata, tra corsa agli armamenti, crisi energetiche, gas alle stelle, perdita di ruolo e di peso dell’Europa, collasso delle relazioni internazionali, odio rinfocolato del mondo arabo-islamico verso l’Occidente e Israele. Insomma siamo stati vicini al conflitto mondiale come non succedeva dai tempi della crisi di Cuba, più di 60 anni fa (e anche allora, per la cronaca, c’era un presidente «buono», e dem, alla Casa Bianca, John F. Kennedy e perfino un comunista buono, e ucraino, al Cremlino, Nikita Krusciov). Oggi questo doppio conflitto è in via di risoluzione e tutti riconoscono che l’avvento di Trump ha sbloccato la situazione. Ma il racconto ufficiale è il contrario: stiamo perdendo la pace (!) perché arriva lui, il guerrafondaio. Trump è aspro e urticante, antipatico anche nel tono della voce, spavaldo e spaccone. L’opinione corrente è che con lui si abbatteranno sul mondo le Sette Piaghe bibliche. Andiamo a vedere nel merito.
1) Trump ha aperto pericolose rivendicazioni a Panama, in Groenlandia, in Canada, al confine col Messico, un po’ ovunque. In realtà Trump non ha mai minacciato interventi militari ma ha caldeggiato liberi pronunciamenti popolari, acquisizioni commerciali, negoziati politici e diplomatici. Il neopresidente negozia così: spara alto e grosso, per avviare una trattativa e ottenere risultati concreti, nel passaggio delle navi dal canale a Panama, nel controllo delle risorse - altrimenti a rischio «cinese» - in Groenlandia, nel riposizionamento del Canada, dopo la fallimentare esperienza di Justin Trudeau, non solo sul piano dell’ideologia woke.
2) Trump segue Elon Musk invocando Marte e l’intelligenza artificiale: ma non il dio della guerra bensì il pianeta da conquistare. Un’auspicabile conversione delle spese militari in impresa spaziale. Investirà poi molto sull’Ia che certo è un terreno pericoloso: ma fino a ieri lamentavamo il ritardo e l’assenza del potere statale in un campo così cruciale, lasciato ai privati, e ora ci lamentiamo di un intervento mirato?
3) Trump imporrà dazi pesanti non solo ai vicini, Canada e Messico, per costringerli a presidiare le frontiere. Ma anche al resto del mondo, a partire dall’Europa. Rendiamoci conto che la globalizzazione oggi giova alla Cina e all’Asia, non coincide più con gli interessi occidentali, europei e americani. Oggi è necessario proteggersi, avere scudi e filtri nel commercio mondiale, tutelare le nostre economie. È un capitolo spinoso, quello dei dazi, ma con Trump si deve negoziare, trovare un punto di convergenza. Dazi chiari amicizia lunga.
4) Lo stop agli immigrati clandestini, il blocco delle frontiere, la revoca dello «ius soli». Può piacere o non piacere, si possono discutere nel merito i singoli provvedimenti e non amare i toni ostili che usa. Ma da un verso corrispondono al mandato elettorale ricevuto, è stato votato per portare avanti quel programma. Dall’altro verso si deve capire che l’Occidente non è in grado di accogliere flussi migratori imponenti, altrimenti rischia di sfasciarsi trascinando il mondo intero nella rovina. Si devono affrontare con realismo i temi dell’immigrazione e la sicurezza delle frontiere, non con la retorica dell’inclusione e dell’accoglienza. In chiave di sicurezza si spiega anche il ripristino della pena di morte; può piacere o no, ma questa è già legge in molti Stati americani, rientra nel loro dna.
5) Liberare i social, internet e la stampa dalle griglie della censura, dichiarare guerra all’ideologia woke, è un preciso impegno che Trump ha assunto col popolo americano, largamente stanco del politically correct, della cancel culture e dei divieti che limitano la libertà di opinione. Il fatto che Zuckerberg e gli altri magnati del web si siano prontamente adeguati al nuovo corso è visto come un segno di regime; ma non vi sfiora il dubbio che l’essersi in precedenza adeguati all’indirizzo dem e aver imposto censure e vigilanze sia stato un segno di regime? La differenza è che in questo caso si tolgono i divieti mentre allora venivano imposti.
6) Ribadendo che i sessi sono due, maschile e femminile, Trump torna alla realtà di sempre, dice una cosa vera e scontata, ma che veniva rimessa in discussione dall’ideologia lgbtq+ e transgender. Un conto è assicurare a tutti il diritto di vivere seguendo i propri orientamenti sessuali e le proprie scelte, purché non a danno di altri; un altro è rimettere in discussione il certo e l’evidente, la storia dell’umanità dalle origini e cancellare la natura, la procreazione, le differenze. Il coraggio dell’ovvietà.
7) Trump, dicono, dichiara guerra all’Europa, vorrebbe usare Giorgia Meloni per sfasciarla. Più sfasciata di così l’Europa non è possibile. La guerra in Ucraina ci ha messi in ginocchio, siamo tornati al traino della Nato e degli Stati Uniti, abbiamo leadership fragili, governi in bilico, senza legittimazione popolare. Non riusciamo a far valere il nostro peso; e ora attribuiamo al neoeletto Trump la colpa di boicottare l’Europa. Via, non siate ridicoli.
La Diocesi di Bolzano-Bressanone ha fatto di tutto per cercare i nomi e i casi di chi ha approfittato dell’abito talare per molestare. Iniziativa lodevole, ma isolata dal silenzio di questo Vaticano.
Sugli abusi sessuali da parte dei sacerdoti e sulla questione dei gay all’interno della Chiesa regna un grande caos. Secondo un rapporto di quella dell’Alto Adige, più precisamente nella Diocesi di Bolzano-Bressanone, è stata commissionata una ricerca dal titolo Il coraggio di guardare, voluta dal vescovo Ivo Muser, che analizza la condotta dei sacerdoti a partire dall’anno 1964 fino al 2023. Sono stati accertati 67 casi di abusi di preti nei confronti di fedeli; l’età media dei sacerdoti è risultata, al momento dei crimini, tra i 28 e i 35 anni, mentre le vittime tra gli 8 e i 14 anni con una prevalenza delle bambine di poco più del 50 per cento.
Si tratta di sacerdoti che allungavano le mani, che si facevano toccare nelle parti intime e, come riporta Il Messaggero, offrivano passaggi in auto fino a sfociare in rapporti veri e propri. Come reagivano le autorità della Chiesa di fronte a questi comportamenti di preti molestatori? La maggior parte delle volte con l’insabbiamento e con la minimizzazione piuttosto che cercare di ristabilire la giustizia e procedere con la condanna ferma e la rimozione di questi preti indegni del loro ruolo. Ha fatto bene il vescovo Muser a squarciare il velo di omertà: «Perché noi vogliamo che la Chiesa sia un luogo davvero sicuro, soprattutto per i bambini, i giovani e le personalità vulnerabili. Ogni caso è sempre uno di troppo».
Purtroppo, e la questione è nota a chiunque non voglia non vederla, spesso, anche oggi, nella Chiesa, di fronte a informazioni su abusi che arrivano ai vescovi, molti preti vengono spostati da una parrocchia a un’altra, passati ad altri incarichi, insomma, casi silenziati e non presi sul serio. Anni fa, in un documento fondamentale di Papa Benedetto XVI, il teologo Joseph Ratzinger pretese che vi fosse scritto, come indicazione vincolante e per tutti i pastori nella Chiesa, quella di denunciare all’autorità giudiziaria civile, ancor prima di quella ecclesiastica, ogni notizia di abuso di tipo sessuale compiuto dai pastori della Chiesa stessa. Sarebbe stato, se applicato, un passo in avanti enorme nella necessaria bonifica che l’istituzione vaticana deve fare nei confronti di questi delinquenti in abito talare. Purtroppo, a questa indicazione non è seguito un comportamento conseguente e oggi ci ritroviamo con la notizia di un vescovo che, in Sicilia, va a processo, per fortuna, per aver coperto gli abusi della sua diocesi, e la cosa che più colpisce è che questo delinquente aveva anche offerto 25 mila euro al ragazzo abusato perché tacesse.
Quante donne, ma soprattutto quanti ragazzi o ragazze, di fronte a quello che ritengono un «padre», un punto di riferimento certo, un qualcuno che dovrebbe essere espressione del bene, della bellezza della vita, del senso della vita, all’inizio non capiscono, realizzano tardi quello che questo porco sta facendo e, magari, tardano a denunciare per vergogna, talora per incredulità di fronte a tanto e poi lo fanno più tardi quando le ferite, che non sono rimarginate, si riaprono e rievocano antichi dolori. Non basta quello che la Chiesa sta facendo, quello in cui si è impegnato Muser dovrebbero farlo tutti. In una Chiesa che vede svuotarsi i seminari, fatti di questo tipo contribuiscono a svuotarli sempre di più e allora si tende ad accogliere anche persone dalla personalità dubbia. Per carità, non possiamo certo affermare l’identità tra un gay e un pedofilo; il primo è uno che ha scelto un orientamento sessuale, il secondo è un malato (in alcuni casi), per la maggior parte è un delinquente, capace di intendere e di volere, che sfrutta la sua posizione di potere spirituale per compiere le proprie porcate.
Troppi sono ancora i casi che emergono e troppi sono quelli che si sanno ma che non vengono denunciati per vergogna, per paura, ma soprattutto perché il dolore prevale sul coraggio di parlare. È difficile oggi per un fedele semplice, di fede pura, capire tutte queste cose che sono successe e succedono nella Chiesa. In questo caso il modo di dire: «Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce» è quanto mai vero perché quell’albero che cade è una persona e quella persona, come sosteneva San Tommaso d’Aquino, è quanto di più perfetto in tutta la natura.
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Tra Lo Voi, Li Gotti e Mantovano, l’ombra dell’uomo che sciolse il bimbo nell’acido
L’avvocato che ha denunciato mezzo governo patrocinava Giovanni Brusca, gestito come «dichiarante» dall’allora procuratore di Palermo. Ma il legale pretendeva la parcella dovuta a chi difende i pentiti e il sottosegretario (all’epoca al ministero dell’Interno) gliela negò.
Una storia tiene insieme lo strano triangolo che fa da retroscena all’esposto che ha prodotto gli avvisi di garanzia governativi sulla gestione del caso del generale libico Almasri. E sembrava sepolta negli archivi della giustizia italiana. Un capitolo in chiaro-scuro legato ai meccanismi che regolavano il trattamento dei collaboratori di giustizia nella fase in cui erano ancora dei semplici dichiaranti. I protagonisti sono gli stessi di oggi, ma all’epoca i loro ruoli erano differenti: l’avvocato Luigi Li Gotti, un passato remoto da missino e uno prossimo da legalitario dipietrista, che per anni ha difeso i pentiti (molti pezzi grossi di Cosa nostra dell’epoca del pentitismo), ovvero l’uomo che ha presentato l’esposto contro gli esponenti del governo, il procuratore di Roma Francesco Lo Voi, già procuratore di Palermo (che poche ore dopo l’esposto ha iscritto sul registro degli indagati Giorgia Meloni, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, quello dell’Interno, Matteo Piantedosi, e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, per i reati di favoreggiamento e peculato). Con un’ombra: Giovanni Brusca, l’uomo che diede l’innesco al telecomando della strage di Capaci e che sciolse nell’acido (perché figlio di un pentito) il piccolo Giuseppe Di Matteo, era difeso poi proprio da Li Gotti.
Tutto ruota attorno a una vicenda apparentemente burocratica: il pagamento delle spese legali pre-pentimento di Brusca. Nel 2005, Brusca e il suo avvocato Li Gotti presentano un ricorso al Tar del Lazio per ottenere il pagamento delle spese legali relative al periodo tra il 1996 e il 2000. Una fase in cui il boss di San Giuseppe Jato aveva cominciato a fare delle dichiarazioni ai magistrati, ma senza essere stato ancora formalmente inserito nel programma di protezione per i collaboratori di giustizia. La Commissione del Viminale, che si occupava delle misure di protezione per i pentiti, aveva infatti riconosciuto il diritto al rimborso solo per il periodo successivo all’inclusione di Brusca nel programma, escludendo quello iniziale. Una decisione contestata da Brusca e dal suo legale, che sostenevano come il diritto all’assistenza fosse maturato sin dall’inizio del percorso. La vicenda è ancora rintracciabile negli archivi dell’Ansa con questa notizia: «Brusca, lo Stato mi dia i soldi per pagare l’avvocato». «La cifra», spiegò all’epoca l’avvocato Li Gotti, «non è stata quantificata. Certo è che si tratta di oltre 1.200 udienze fatte nei Tribunali di mezza Italia». E aggiunse: «La Commissione del Viminale per il caso di Brusca non ha ritenuto di dover retrodatare il riconoscimento del programma di protezione all’inizio della sua collaborazione datata 1996». Qui entra in gioco un dettaglio cruciale: la Commissione che negò il rimborso era presieduta, all’epoca, proprio da Mantovano (in quanto sottosegretario all’Interno, nella composizione c’erano magistrati e un prefetto). L'ex procuratore Otello Lupacchini (noto per le inchieste sulla Banda della Magliana), che all’epoca era membro della Commissione, sentito dalla Verità ha cercato di scavare nei ricordi. La somma richiesta per le spese legali di Brusca era «ingente».
Ma, soprattutto, emerge un elemento che sottolinea il cortocircuito istituzionale: «Se Brusca non era formalmente un collaboratore nel periodo contestato», sono le valutazione che all’epoca avrebbe fatto la commissione, stando ai ricordi di Lupacchini, «non poteva ricevere fondi pubblici per la sua difesa». E la richiesta fu rigettata. «Il provvedimento della Commissione del Viminale», si lagnò Li Gotti, «è illegittimo. Anche Brusca, come tutti gli altri collaboratori di giustizia, deve usufruire dei benefici previsti per l’assistenza legale fin dall’inizio della sua collaborazione». Ma siamo ancora nel 2005. Nel 2006, Li Gotti diventa sottosegretario alla Giustizia del governo Prodi (correva il mese di maggio), trovandosi dall’altra parte del tavolo rispetto alle vicende che lo avevano visto protagonista come difensore di pentiti. E sempre nel 2006, ma ad aprile, il giorno 18 (le elezioni politiche furono vinte dalla squadra di Prodi il 9 e 10 aprile di quell’anno) il Tar accoglie il ricorso, stabilendo che la normativa sui collaboratori di giustizia non prevede che l’assistenza legale sia subordinata alla formale ammissione al programma, ma alla reale disponibilità a collaborare.
«La fase zen in cui noi mangiamo fango e sputiamo miele è finita». I duemila sostenitori, il manipolo di parlamentari e la tonificante colonna sonora degli Alphaville in sottofondo: I Want to Be Forever Young. Il sempre giovane Matteo Renzi ha deciso di celebrare i cinquant’anni con la solita sobrietà: sul palco di un teatro fiorentino, annunciando che nulla sarà uguale a prima.
L’ex Rottamatore rinasce moralizzatore, sperando di far dimenticare i tormentati trascorsi. Gli prudono i polpastrelli: e posta come un dannato contro il governo. Per non parlare di Palazzo Madama. Si definiva sommessamente uno scornato «senatore semplice di Scandicci». Adesso è un capopopolo senza popolo. Travolto dall’insolito furore, teorizza audace: «Meloni ha paura che il nostro due per cento sia decisivo per la sconfitta della destra». Capito? De-ci-si-vo. Che fine farebbe l’opposizione senza il suo strepitoso apporto? Resta l’insanabile problemone. Voti, seggi, proiezioni. Nemmeno il più ardimentoso sondaggista si spinge oltre. Italia Viva, malriuscita creatura renziana, si approssima ormai a percentuali che ricordano i prefissi telefonici di assolate cittadine del Sud.
Pena l’estinzione, dunque, non resta che svillaneggiare. Per rinascere come in quel film: Il giorno della marmotta. Lì un meteorologo rivive sempre la stessa giornata. Qui un ex premier cerca di tornare invano ai lontani fasti. Dopo adeguate celebrazioni, raggiunto il mezzo secolo di vita, assodata la marginalità, Matteo ricomincia da dove ripartì. Era il settembre 2019. Passata una lunga stagione a Palazzo Chigi, l’ex segretario del Pd decide di fondare Italia Viva. «Avremo centinaia di sindaci, una cinquantina di consiglieri regionali, migliaia di amministratori e soprattutto un sacco di comitati e semplici iscritti» annuncia. «Non saremo un partito del cinque per cento» assicura. «Magari» risponderebbero oggi i quattordici parlamentari rimasti: un terzo di quelli che, oltre cinque anni fa, lo seguirono speranzosi. L’ultimo a fare ciao ciao con la manina è stato il turboeconomista Luigi Marattin, deluso dall’ultimo intento del leader: far rifiorire, nel campo largo, l’appassita Margherita.
È lo stesso proponimento del sempreverde Romano Prodi, che ha persino individuato il suo possibile erede: Ernesto Maria Ruffini, già direttore dell’Agenzia delle entrate. Matteo diventa quindi il maranza di Palazzo Madama, pronto a fare esplodere le casse durante ogni seduta. Intanto, Italia Viva perde anche l’unico invidiabile record conquistato in questi anni: fare incetta di finanziamenti, tra imprenditori e supporter. Nel 2022 aveva raccolto quasi 2,3 milioni di euro. Nel 2023 s’è invece fermato a 497 mila euro: meno 78 per cento.
Attenzione, però. Non si tratta solo di un banale ritorno alle origini, come un Toninelli qualsiasi. Il piano è ben più articolato. Renzi è l’inarrestabile fustigatore, dimentico dei notevoli trascorsi. Ne ha per tutto il governo. Taccia di opacità e nefandezze chiunque gli capiti a tiro. Ma non serve una memoria prodigiosa per ricordargli le passate controversie. Giunse all’improvviso: il premier italiano più giovane della storia, autore dell’indimenticabile 40 per cento del Pd alle europee 2014, infine responsabile di un leggendario tracollo politico. Adesso è ovunque. Giornali e tv se lo contendono, speranzosi di poter concedere alle agenzie l’ennesima sparata. Matteo non delude mai. Nonostante le perplessità dell’elettorato, vagheggia la riscossa: «Siamo tornati in campo perché non accettiamo l’incantesimo di un’opposizione addormentata».
Lui, invece, è più arzillo dei vecchietti di Cocoon. La «fase zen», annuncia, è terminata. In realtà, non sovvengono comportamenti monastici. Il suggello, comunque, arriverà il prossimo 18 marzo, quando uscirà il suo ennesimo libro: L’influencer. È dedicato alla premier. «Il grande asset della Meloni è che non ha dall’altra parte gente che si mette insieme»: disse colui che litigò furiosamente con chiunque non abbia allisciato il suo sconfinato ego. Tralasciamo la discutibile eleganza del gesto: un ex presidente del Consiglio che, pur di far parlare di sé, scrive un libro contro un successore.
Per la sua gioia, visto che l’importante è che se ne parli, concentriamoci piuttosto sulle incoerenze del redivivo. Prendiamo, appunto, l’imminente bestseller. Matteo annuncia, per dirne una, di rivelare i rapporti incestuosi che correrebbero tra la premier e la stampa benevolente. Proprio lui. Mentre è a Palazzo Chigi rivela una preziosa informazione a Carlo De Benedetti, gloriosa tessera uno del Pd e allora editore dell’imprescindibile Repubblica. Renzi gli annuncia l’approvazione del decreto banche. L’Ingegnere investe così cinque milioni di euro sulle Popolari, guadagnando una plusvalenza di 600 mila euro. Segue inchiesta per insider trading. Archiviatissima, per carità. Niente di losco, ci mancherebbe. L’episodio però esemplifica gli splendidi rapporti intrattenuti con l’ex padrone del quotidiano simbolo della sinistra tricolore.
Andiamo avanti. Il fido Francesco Bonifazi presenta due interrogazioni alla Camera, insinuando scarsa trasparenza della premier. Meloni, chiede il deputato di Italia Viva, favorisca l’elenco dei regali sopra i 300 euro ricevuti durante il mandato. E poi, la lista dei fornitori utilizzati per ristrutturare casa, così come l’eventuale ricorso ai bonus fiscali. In attesa delle risposte, ci permettiamo di riesumare altri trascorsi. Fu proprio Panorama a rivelare, nell’aprile 2015, che la villa a Pontassieve della famiglia Renzi era stata ristrutturata, tra l’ottobre 2004 e il luglio 2006, da una società di costruzioni dell’amico Andrea Bacci: la Coam, poi fallita. Due mesi dopo la fine dei lavori, l’imprenditore viene chiamato da Renzi, a quel tempo presidente della Provincia di Firenze, per dirigere Florence multimedia, società partecipata che si occupa di comunicazione. A Panorama, allora Bacci nega ogni nesso tra ristrutturazione e nomina: «Stia però sicuro che m’ha pagato, altrimenti io quei lavori non li facevo mica eh!». Sì, ma quanto? Non è che c’è scappato uno sconticino? «Sono passati più di dieci anni, abbia pazienza…». All’epoca, dunque, niente ricevute. Anche Marco Carrai, altro imprenditore fiorentino e storico amico di Matteo, ha avuto strategici incarichi nell’era renziana. Mette a disposizione un attico in via degli Alfani, a Firenze, dal marzo 2011 al gennaio 2014. Ci pensa lui a pagare i canoni d’affitto: circa 37 mila euro. Nello stesso periodo, Carrai viene nominato alla guida di due società pubbliche: amministratore delegato della Firenze parcheggi e presidente dell’Aeroporto di Firenze.
Comunque sia: le interrogazioni di Italia Viva non sembrano una legittima richiesta di chiarimenti, ma un grossolano tentativo di vendetta. Il governo ha voluto una norma che vieta a parlamentari di avere incarichi retribuiti fuori dall’Ue. Il pensiero, ovviamente, non può che correre alle retribuitissime conferenze di Renzi nell’Arabia del principe Mohammad bin Salman. Matteo, dopo essere diventato un cantore del «rinascimento» saudita, si sarebbe indispettito anche per i proficui rapporti destinati a nascere con l’Italia. A fine gennaio, Meloni infatti vola a Riad per il suo primo faccia a faccia con Bin Salman, già programmato nel 2024 e poi saltato.
«Sul mio reddito incide solo per il 10 per cento» giura l’interessato. Sarà. È passato dai 29.315 euro guadagnati nel 2017 ai 2,3 milioni che ha dichiarato nel 2023, persino in calo rispetto ai 3,2 milioni dell’anno precedente. Poco importa: adesso Matteo rinasce. Impavido fustigatore. Supremo moralizzatore. Cavaliere senza macchia. Basta «sputare miele», qualsiasi cosa voglia dire. I treni arrivano in ritardo? Il ministro dei trasporti, Matteo Salvini, tragga le dovute conseguenze: «Dimettiti, buffone». La giustizia è quella che è? Il sottosegretario, Andrea Delmastro, si faccia da parte: «Dimettiti, forcaiolo».
Nessuno che l’accontenti, però. Certo, pure stavolta il pulpito è traballante. Ricordate cosa promise ai tempi del referendum costituzionale del 2016? «Se non passa la riforma, finisce la mia storia politica». Eccoci qui, invece, tentando di riassumerne a fatica le ultime gesta. È come lo smemorato di Collegno, che del passato non ricordava nulla? Macché. Per lo spumeggiante Matteo, piuttosto, il giorno della marmotta si spinge fino ai tempi del liceo. Lui già le sparava gigantesche. Ai compagni, con una frase diventata lapidario soprannome, non restò che concludere: «È il Bomba». n
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Lo Voi, lo stesso del caso Salvini, ha inviato «avvisi di garanzia» a Meloni, Piantedosi, Nordio, e Mantovano. Il premier: «Non sono ricattabile». Tajani: «Sembra una ripicca delle toghe per la riforma». Il leader leghista parla di vergogna. C’è una parte della magistratura che si sente al di sopra di tutto e persegue scelte che spettano alla politica.
Non mi è chiaro in che cosa consistano il favoreggiamento e il peculato che la Procura di Roma contesta a Giorgia Meloni, ai ministri Piantedosi e Nordio e al sottosegretario Mantovano, per non aver consegnato un cittadino libico ai giudici dell’Aja. Tuttavia, mi è abbastanza evidente che una certa magistratura, forse per effetto della riforma della giustizia in discussione in Parlamento, si sente al di sopra di tutto, anche della ragion di Stato, e dunque legittimata a perseguire scelte che dovrebbero essere di totale competenza della politica. La deriva di una parte dei nostri pubblici ministeri mi era manifesta fin dall’inchiesta che i pm di Palermo avevano aperto contro Matteo Salvini, ritenuto responsabile di aver sequestrato da ministro dell’Interno un centinaio di migranti, per avere negato il diritto di attracco alla nave su cui viaggiavano. Con la complicità dei 5 stelle, che ai tempi del primo governo Conte avevano condiviso le decisioni del leader della Lega, Salvini era stato rinviato a giudizio e solo una recente resipiscenza dei giudici ha evitato una condanna. Ma adesso, in un clima già reso incandescente dalla protesta contro la legge che separa la carriera delle toghe, arriva l’inchiesta a carico di mezzo governo, per la liberazione del capo delle guardie di una prigione libica. Arrestato in Italia dopo aver girovagato per buona parte d’Europa senza essere stato trattenuto, l’aguzzino di Tripoli era stato sbattuto in cella su ordine della Corte penale dell’Aja, ma fin da subito erano risultate palesi non soltanto l’anomalia dell’ordine di carcerazione, ma pure le conseguenze. È inutile nascondersi dietro un dito: il trattenimento del carceriere e la sua consegna ai magistrati che perseguono la violazione dei diritti umani, comportava la reazione libica, con la scarcerazione di decine di migliaia di migranti lasciati liberi di partire per le coste italiane. Eventualità che il governo ha deciso di scongiurare.
E che cosa c’entra la magistratura in tutto questo? Niente. Come niente c’entrò quando Bettino Craxi, statista di cui oggi si rimpiange la scomparsa, fece liberare il capo dei terroristi dell’Achille Lauro. Abu Abbas era responsabile della morte di un turista americano costretto su una sedia a rotelle. Un assassinio spregevole, perché i palestinesi uccisero un uomo inerme. E tuttavia a nessun pm venne in mente di indagare Craxi. Così come a nessun magistrato è passato per la testa di mandare un avviso di garanzia a chi ha permesso la scarcerazione di Cecilia Sala in cambio della liberazione di un ingegnere iraniano accusato di aver procurato il materiale per un attentato. Forse per la giornalista di sinistra, cara a tutto il mondo radical chic, si può chiudere un occhio sul favoreggiamento e sul peculato? O forse, come nel caso di Craxi, essendo palestinesi i sequestratori si poteva fare un’eccezione e rilasciare il terrorista? In ogni Paese esiste la ragion di Stato, ovvero una ragione che compete all’autorità politica e non ai pm. In passato, la Procura di Milano provò a processare i capi dei servizi per l’aiuto dato a un’operazione della Cia sul nostro territorio, ma le richieste furono respinte con l’opposizione del segreto di Stato, costringendo i magistrati a fermare la loro offensiva. Se l’aguzzino libico non è stato consegnato alla Corte penale dell’Aja e l’ingegnere iraniano sospettato di aiutare i terroristi non è stato estradato negli Usa una ragione c’è ed è l’interesse nazionale. Nel primo caso si trattava di evitare migliaia di nuovi sbarchi di immigrati, nel secondo la motivazione aveva il volto di Cecilia Sala.
Il 27 gennaio si celebreranno le vittime dell’Olocausto. Il ricordo incancellabile di questa tragedia della Storia non deve giustificare però le speculazioni su di essa. E due capolavori di Primo Levi non denunciano solo il «Male assoluto», piuttosto quello universale.
Non prendetevela con la Giornata della memoria per quel che sta succedendo ora in Medio Oriente: gli errori e gli orrori di Israele non c’entrano con la memoria dello sterminio degli ebrei. Le colpe del presente non ricadano sul passato, e viceversa. Gli italiani in larga parte condividono l’orrore per la Shoah e per la persecuzione razziale, ne rispettano la memoria. Ma quando vedono ogni altra memoria cancellata e relativizzata, ogni altro orrore rimosso e archiviato, ogni altro evento storico dimenticato; quando la Memoria è monopolio esclusivo di quell’evento nella storia dell’umanità; quando perfino la ricerca storica è condizionata da leggi speciali che obbligano il giudizio e vietano ogni revisione; quando Auschwitz prende il posto della Croce e del Venerdì Santo, e quando vedono che qualcuno vi specula - lo storico ebreo Norman G.Finkelstein denunciò «l’industria dell’Olocausto» e il suo sfruttamento - il disagio può sconfinare nell’insofferenza. Non per la Shoah, ma per la sua rappresentazione e per la speculazione che si imbastisce sulla pelle di tante vittime. Un fastidio represso perché se solo ne accenna, si passa per un negazionista.
Col tempo la Memoria della Shoah aumenta anziché attenuarsi: oggi è più ossessiva di 50 anni fa. L’alibi è lo stesso: attenti, sta per risorgere il nazismo... C’è sempre un piccolo episodio, una piccola idiozia che fa gridare al suo ritorno. Non c’è telegiornale, non c’è palinsesto, non c’è film storico, non c’è gita d’istruzione che non contempli la grande risonanza a quell’evento. Spariscono gli orrori del comunismo, sparisce la storia dell’uomo nei secoli e ogni altro avvenimento, anche positivo; resta come una specie di religione dell’umanità il culto di quella sola memoria. Solo per limitarci a quegli anni, l’umanità visse tre immani tragedie, ciascuna a suo modo unica: il lager, il gulag e la bomba atomica. Tre mali radicali che massacrarono innocenti. I gulag furono i primi, durarono decenni, sterminarono di più e non in tempo di guerra. Ma il Male Assoluto, oggi, è solo il primo. Giusto e onesto è criticare il monopolio della memoria e l’abuso, politico, ideologico, mediatico e perfino commerciale che se ne fa.
Ho letto con ritardo Se questo è un uomo e La tregua di Primo Levi, e vorrei parlarne senza ipocrisia. Mi hanno toccato profondamente. Non le ho rilette, come di solito si dice, ma le ho lette per la prima volta, superando il rigetto che provo quando una lettura è obbligata e molto strumentalizzata. Ma rilette al di fuori di quel cono mediatico ed enfatico acceso giorno e notte, come il fuoco di Vesta, rilette cioè ad altezza d’uomo, con mente e cuore aperti, sono di struggente umanità. Ognuno la giudica con la sua personale sensibilità. Sono stato toccato in particolare da due cose che di solito passano in secondo piano: il suo pensiero del ritorno e la sua nostalgia della casa, dell’Italia, degli italiani. «Mi stava nel cuore il pensiero del ritorno» scrive Levi mentre lo deportavano e passando il Brennero figurava «l’inumana gioia» del passaggio inverso, in libertà, verso l’Italia, coi «primi nomi italiani». Un’altra volta nel lager, sentendo passare un treno e sibilare la locomotiva, Levi sognò il treno del ritorno a casa: «Sentirei l’aria tiepida e odore di fieno, e potrei uscire fuori, nel sole: allora mi coricherei a terra, a baciare la terra, col viso nell’erba. E passerebbe una donna e mi chiederebbe: “Chi sei?”, in italiano, e io le racconterei, in italiano, e lei capirebbe e mi darebbe da mangiare e da dormire». «In italiano», ripete, con una densità evocativa del tutto priva di retorica.
Poi ne La tregua, Levi racconta la nostalgia come «una sofferenza fragile e gentile, essenzialmente diversa, più infima, più umana delle altre pene che avevamo sostenuto fino a quel tempo: percosse, freddo, fame, terrore, destituzione, malattia. È un dolore limpido e pulito, ma urgente; pervade tutti i minuti della giornata, non concede altri pensieri, e spinge alle evasioni». E la voglia di raccontare, il veleno di Auschwitz dentro le vene, quei versi memorabili: «Sognavamo nelle notti feroci/ Sogni densi e violenti/ Sognati con anima e corpo/ Tornare; mangiare; raccontare». In quei tre verbi è riassunta non solo la speranza di chi è internato nei campi (non solo nazisti) ma anche di ogni agognato ritorno: il cammino a ritroso è spinto dalla fame originaria del cibo di casa, le pietanze della madre nell’infanzia, il pane condiviso coi famigliari e i commensali (compagni da cum-panis, non in senso politico). E raccontare, perché solo dicendo, condividendo, è possibile sgravarsi da quell’immane peso. Levi parlava di ritorno, non di esodo, parla di casa e d’Italia non di «terra promessa».
Levi era stato balilla e avanguardista, proveniva da una famiglia blandamente fascista, suo padre indossava la camicia nera; poi arrivò la feroce demenza delle leggi razziali e lui diventò antifascista. Giustamente. Il suo capolavoro, Se questo è un uomo, dapprima rifiutato da Einaudi, fu pubblicato dall’editore De Silva. È il canto dolente di ogni uomo di ogni tempo, terra e razza. E racconta il male patito da ogni uomo che abbia sofferto un’analoga deportazione, mortificazione e rischio di eliminazione finale. Se parla all’umanità intera non può che raccontare il male universale e non uno, esclusivo, unico, assoluto. Sconfiggere il razzismo significa rispettare non solo l’uguaglianza dei diritti ma anche le differenze. Gli ebrei non sono stirpe eletta né maledetta. Sono persone come noi, a volte migliori, a volte peggiori di noi.
L’esposizione in corso a Roma sulla più importante tendenza artistica italiana del Novecento ha alcuni pregi ma anche mancanze. Che, in ogni caso, richiamano l’attenzione su un formidabile movimento di creatività e libertà espressiva.
La mostra dell’occasione mancata, dicono alcuni sollecitati dai vari specialisti che anche ingiustamente ne sono rimasti fuori. È la mostra con cui finalmente si celebra un momento che deve appartenere alla cultura di ciascun italiano, dicono altri che più si ritrovano in un progetto fortemente voluto dal ministero della Cultura. Ma come è questa mostra Il Tempo del Futurismo, più chiacchierata che vista, a cura di Gabriele Simongini, ancora fino al 28 febbraio alla Gnam, la Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma? È una mostra in grande, cosa che in Italia non è mai scontata, e questo è di certo un punto a favore. La grandezza, però, non è un criterio assoluto. Sia chiaro, il compito era improbo, di quelli in cui è quasi impossibile soddisfare tutti. Difficile che questa mostra resti nella memoria come quella di Palazzo Grassi a Venezia (1986) che non era certo maggiormente in grande dell’attuale, anche se non mancavano capolavori qui assenti come La città che sale di Umberto Boccioni o I funerali dell’anarchico Galli di Carlo Carrà. La mostra veneziana rispondeva a un’esigenza critica largamente condivisa in quel momento, la definitiva riabilitazione internazionale - il curatore era Pontus Hulten, progressista militante - di un movimento artistico certamente importante perché su di esso gravasse una censura politica, come ho recentemente indicato nel mio libro su Arte e Fascismo. Mino Somenzi, sull’organo ufficiale del movimento (Futurismo, n. 27, 12 marzo 1933) scriveva: il «Futurismo è una forma d’arte e vita; il Fascismo una forma politica e sociale: cose diametralmente opposte».
I futuristi avevano portato avanti un’attitudine di insofferenza verso l’idea che stia all’arte tradurre fedelmente una ideologia politica, e si trovano a essere gli ultimi difensori di un’arte moderna, in un tempo che vede il potere e l’arte sempre più congiunti. La Prima guerra mondiale aveva fatto emergere tutte le contraddizioni ideologiche del Futurismo, che non era morto, tornando in auge negli anni Venti e Trenta: Marinetti sostiene il Fascismo e diventa riverito accademico d’Italia; Balla e Depero continuano la loro personale «Ricostruzione futurista dell’universo». Il tempo del Fascismo investe poi gli anni che succedono alle avanguardie, con un «rappel à l’ordre» che si diffonde in tutta Europa, a partire dalla fine del Primo conflitto, e culmina nel Picasso classico (tendenza che in Italia investe Virgilio Guidi, Felice Casorati, Franco Gentilini, Mario Sironi, Achille Funi, Massimo Campigli, Mario ed Edita Broglio), nel Morandi metafisico, «classicisti moderni» già prima del Fascismo.È dunque anche in virtù della grande mostra di Palazzo Grassi del 1986 e di quanto ne è conseguito che oggi nessuno può seriamente affermare di volere riscattare il Futurismo. Semmai la sfida è di riproporre quello che a tutti gli effetti è un classico dell’arte novecentesca, alla base del concetto stesso di Avanguardia, in termini che da una parte esprimano la molteplicità e la contraddittorietà di un fenomeno che proprio per questo è stato di enorme portata mondiale, dall’altra concedendo il minimo possibile all’accademia e al museo, che già Marinetti rifiutava nelle prime intenzioni del suo manifesto.
Se per il primo punto mi pare sia stato accolto solo parzialmente il mio suggerimento, quando ancora ero al ministero, perché la mostra si ispirasse a un’idea centrifuga di Futurismi, per il secondo si è puntato a rappresentare la modernità, decisiva negli sviluppi del movimento, attraverso la partecipazione di opere e macchine nel segno della velocità, la più futurista delle virtù. Le buone intenzioni non evitano del tutto l’effetto di un’imbalsamazione che si poteva evitare mostrando più coraggio, anche con provocatoria, futurista irriverenza. Per esempio: in mostra la scultura di Boccioni è insufficiente. Dell’iconica Forme uniche della continuità nello spazio non v’è l’originale, il gesso oggi a San Paolo del Brasile, Boccioni dichiara di disdegnare altre materie. Né vi sono le traduzioni in bronzo volute da Marinetti, quando morì Boccioni, malgrado le presenze in prestigiosi musei e le quotazioni milionarie di mercato. In realtà la Galleria nazionale possiede un originale, L’Antigrazioso, non esposto perché danneggiato. Cosa ci sarebbe stato di più in linea col Futurismo, se davvero si considera ancora attuale il suo spirito anticonformista, che presentare un’opera nell’artisticità involontaria e temporanea, conferitagli da un danneggiamento? Non avrebbe funzionato anche come viatico per alcune delle esperienze espressive più rivoluzionarie del Futurismo, non rappresentate in mostra, come il Tattilismo di Marinetti, strepitoso anticipatore di Robert Rauschenberg e del Nouveau Réalisme, o il polimaterismo di Enrico Prampolini? Non sarebbe però corretto riferire soltanto delle mancanze della mostra (bandita, fra l’altro, la fotografia, così come troppo poco spazio viene concesso al dialogo col Cubismo, quasi che potesse sporcare la patente di nazionalità del movimento), considerando alcune presenze meritevoli da sole della visita, anche se talvolta in collocazioni spiazzanti. La Lampada ad arco di Giacomo Balla denuncia un Divisionismo che si emancipa dal Simbolismo più letterario, ancora presente nei bellissimi Sole di Pellizza da Volpedo e Caduta degli angeli di Gaetano Previati, concentrandosi su una dinamica che guarda all’astratto, estremizzata nella Bambina che corre sul balcone dello stesso Balla. Con quest’ultima si indica al Futurismo un percorso da battere, così come capita in La rivolta di Luigi Russolo, l’inventore di un «intonarumori» che prefigura le sperimentazioni di John Cage.
Sarà una sorpresa, per chi ancora non lo conosce, Romolo Romani, firmatario del manifesto del 1910 poi afflitto da disturbi mentali, così come l’importante contributo post-bellico di una serie di artiste (Velocità di motoscafo di Benedetta Cappa Marinetti, Battaglia aerea nella notte di Marisa Mori), che appare eroico tra tanto sfoggio di virilità (si veda, per esempio, l’aeropittore Tullio Crali nel Prima che si apra il paracadute).La mostra della Gnam certifica, chissà se oltre i suoi propositi iniziali, che il «tempo del Futurismo» appartiene a un secolo non più nostro, e dunque proporne oggi un rinnovo del culto appare come un sentimento ritardatario, ispirato da una nostalgia che lo stesso Marinetti avrebbe disprezzato. Il Futurismo è una fase formidabile del Novecento italiano: guardiamo alla sua vivacità, alla sua libertà, alla sua dirompenza come a una rivoluzione compiuta.
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Torna per la seconda edizione il nostro master in giornalismo: lezioni con le migliori firme dei settimanali del gruppo e della «Verità» per insegnare le basi del mestiere. Da come cercare una notizia a come realizzare un’intervista per diversi mezzi, dal Web alla carta. Chi volesse informazioni sul corso, potrà trovarle sul sito https://academy.panorama.it/.
Questo mestiere l’ho fatto per caso. Un giorno un mio vicino di casa mi chiese se volessi collaborare con un giornale e si propose di accompagnarmi in redazione. Non mi disse che il quotidiano era fallito e non aveva il becco di un quattrino per pagare i corrispondenti. Forse non era a conoscenza del marginalissimo dettaglio, oppure pensò che per un ragazzo di 17 anni l’assenza di un compenso fosse cosa secondaria. In realtà, scrivendo per un quotidiano non avevo nulla da perdere, ma tutto da guadagnare, non in termini economici, ma di sicuro in divertimento e questo all’epoca mi bastò. Così cominciai e la sera, finita la scuola, suonavo regolarmente il campanello della caserma dei carabinieri del paese in cui vivevo e al piantone facevo la domanda di rito: è successo qualche cosa? A volte scuoteva la testa, altre mi faceva entrare e mi diceva: aspetta qui, che adesso arriva il comandante. Il maresciallo ancora me lo ricordo, era prossimo alla pensione e raccontava di aver lavorato per il Sifar di De Lorenzo, ovvero per il servizio segreto del presunto golpe. A me però non rivelava i misteri d’Italia, ma raccontava solo di qualche incidente. Mi faceva sedere nel suo ufficio e poi ordinava: «Scriva!». Declamava fatti di cronaca con la stessa prosa usata nei verbali: il sinistro verificavasi alle ore tali all’altezza del civico… l’autovettura scontravasi con un mezzo proveniente nella direzione opposta eccetera. Il problema era trascrivere tutto con attenzione, perché poi il maresciallo a un certo punto si interrompeva e pretendeva che rileggessi. E senza omissioni.
Le visite serali in caserma furono la mia prima scuola di giornalismo. Di come si scrivesse un articolo non avevo idea. Come raccogliere le informazioni, oltre a suonare il campanello, anche. Fino a che punto fidarsi di una fonte che non fossero i carabinieri, pure. Insomma, non sapevo niente di niente e siccome i miei contatti con la redazione si limitavano alla telefonata con cui avvisavo dell’incidente o della riunione del Consiglio comunale, non avevo neppure qualcuno che mi spiegasse cosa fare e come. Certo, una scuola di giornalismo mi sarebbe stata molto utile, ma a quei tempi l’unica lezione possibile per apprendere le regole della professione era quella della redazione. Frequentare la sede del giornale, dove però non ci si poteva intrattenere troppo oppure disporre di una postazione, perché l’amministrazione voleva evitare che poi qualcuno accampasse diritti, sostenendo di aver lavorato come abusivo.
Sì, una scuola mi avrebbe fatto molto comodo per capire come si fa e soprattutto come si scrive un’intervista. Ma nessuno, a quei tempi, sembrava interessato a insegnarmelo.
Dunque, quando con Panorama si è presentata l’occasione di creare un master di giornalismo, ho pensato ai miei esordi complicati e ho ritenuto che un corso per conoscere le cose fondamentali di questo mestiere, con colleghi esperti che ti dicono che cosa fare e come, sarebbe stato di grande aiuto alle giovani generazioni. Da quando faccio il direttore ho visto schiere di giovani interessate a lavorare per un giornale, ma quando li ho messi alla prova quasi sempre ho trovato ragazzi pronti a scrivere editoriali che nessuno chiedeva loro, ma non altrettanto determinati a trovare una notizia. In altre parole, molti vorrebbero cominciare dalla fine, mettendo nero su bianco i propri commenti, senza afferrare che prima di commentare un fatto serve capirlo e saperlo descrivere.
Ecco, la scuola che abbiamo lanciato e che ora è giunta al suo secondo anno aiuta a comprendere le regole di questo mestiere, partendo dall’inizio ovvero dalla notizia e accompagnando gli studenti in un percorso che consente di declinare il mestiere del cronista su molti mezzi, ma sempre con un obiettivo: informarsi e dopo informare. Che il suo target sia un lettore, un ascoltatore, un telespettatore o l’utente di un social, il giornalista deve avere presente che i requisiti per scrivere un buon articolo, fare un’ottima intervista o un’eccellente radiocronaca restano gli stessi. Il master di Panorama è diretto da un giornalista di grande esperienza come Massimo de’ Manzoni, che oltre ad aver guidato nel corso degli anni diverse redazioni, un giornale - La Verità - lo ha anche fondato e dunque sa che la prima cosa da fare quando ci si mette al computer (un tempo avremmo detto alla macchina da scrivere) o davanti a una telecamera è catturare l’attenzione di chi sta dall’altra parte, a casa davanti alla tv o in macchina nel traffico o, ancora, seduto a bar o nel salotto di casa con il proprio giornale tra le mani. Insieme a lui ci sono tanti colleghi: Mario Giordano, Claudio Antonelli, Francesco Borgonovo, Martino Cervo, Giorgio Gandola, Paola Salvatore, Marco Morello e molti altri. Loro insegneranno agli studenti come si costruisce un’inchiesta, come si fa un reportage, come affrontare notizie economiche e i meccanismi della moda. Perché si affronteranno i temi di cronaca nera ma anche di quella mondana, il mondo del life style e quello del food. Insomma, sarà uno straordinario viaggio nel mestiere più bello - e più vario - del mondo.
Chi volesse informazioni sul corso, potrà trovarle sul sito https://academy.panorama.it/.