Tap, tanto rumore per nulla
Reportage da Melendugno, il Comune del Salento dove è stato realizzato il contestatissimo terminale del gasdotto.
Oggi tutti decantano la Tap, e persino chi era contrario parla di raddoppio. Ma cosa c’è a Melendugno da quando è arrivato l’approdo? Sono andata a vederlo la scorsa estate raccogliendo un racconto e aspettando il momento per pubblicarlo. Credo sia arrivato.
È un venerdì di metà luglio e questa è la spiaggia di San Foca, la marina di Melendugno. Fa caldissimo, e io sono l’unica con le bermuda al posto del costume da bagno. Precisamente sono nella lingua di 10 metri di spiaggia pubblica tra lo stabilimento Ensò e Lido San Basilio. Sotto i nostri piedi nella sabbia passa la Tap. Se non avessimo chiesto a un ragazzo del posto di accompagnarci non lo avremmo mai saputo. Perché tracce della Tap qui non ce ne sono.
Siamo sull’approdo finale degli 870 chilometri del gasdotto che parte dall’Azerbajan e attraversando Grecia e Albania lungo il corridoio mediterraneo arriva in italia. Ma se non te lo dice qualcuno, non lo sai, non lo vedi, e non lo senti. Non c’è nulla, ma proprio nulla, né un dosso, una pompa, un rubinetto, una recinzione, un odore, una nuvola di fumo, un cartello o un segnale che te lo possa far immagine.
Non c’è più neanche la boa gialla in mare, quella che la scorsa estate al largo ti indicava il punto esatto dell’approdo a 800 metri dalla riva. Nulla. La boa c’era per segnalare il palancolato: una struttura sottomarina realizzata per minimizzare l’impronta dell’innesto della pipeline evitando impatti sull’ecosistema marino da eventuale dispersione di sedimenti mentre la nave Castoro 6 (eccellenza della nautica italiana costruita negli anni Settanta da Fincantieri che ha realizzato i gasdotti più grandi del mondo) preparava il microtunnel.
Terminati i lavori senza modifiche dell’habitat marino, è stato rimosso il palancolato e quindi anche la boa gialla. Ora non c’è più nulla in spiaggia e in mare che riguardi il gasdotto. Ogni tanto si affaccia la nave che fa i monitoraggi. L’acqua del mare è cristallina, la usano per bagnarci le frise. Limpida e pulita. Nessun sedimento, nessun torpore, nessun movimento, le alghe che c’erano ci sono ancora. La spiaggia è piena di asciugamani stesi sul gasdotto. Affollatissima. Sabbia sottile, chiara, piatta.
La meravigliosa costa di San Foca come era, è. Per riconoscere che è questo il punto esatto dell’approdo, la prossima volta che vengo userò come riferimento il Buddha di plastica dello stabilimento Ensò che ogni giorno viene messo sugli scogli e ne deturpa la salentinità più del tubo.
È pieno di turisti, adulti che prendono il sole, ragazzi che fanno il bagno, bambini che giocano in riva e fanno i castelli di sabbia. Con quella stessa sabbia che copre il gasdotto. 15 metri sotto. Nessuno si accorge di nulla. Anche durante il cantiere i lavori sono sempre stati fatti di inverno, con blocco per legge nei mesi esistivi. Ma in spiaggia e in mare non si è mai visto neppure un operaio, i lavori non sono stati fatti a cuore aperto ma attraverso un pozzo di spinta, una sorta di laparoscopica ingegneristica.
Vado a chiedere ai gestori dei lidi se da quando c’è il tap hanno perso clienti. l’ombrellone costa 30 euro al giorno, mille euro per tutta la stagione. E sono tutti prenotati. Trovare qualcuno che parli, oggi, è molto difficile. La loquacità alimentata dalla rabbia per la contrarietà alla costruzione del gasdotto è diventata mestizia cresciuta nella consapevolezza dell’impotenza di esserci riusciti, nella delusione delle promesse politiche non mantenute, ma soprattutto dall’evidenza che qui le cavallette, le ciminiere, le malattie, fulmini e saette, non sono arrivate.
Per anni hanno protestato, fatto manifestazioni anche violente, occupato il cantiere (e qualcuno è anche andato al governo del Paese) perché il gasdotto non doveva approdare nella spiaggia più bella di italia. Incontaminata e «esotica» come la chiamò il presidente della regione Puglia Michele Emiliano. Lo è ancora. Come prima. Uguale. Con l’approdo del tubo in spiaggia non è cambiato niente. E c’è imbarazzo oggi a doverlo ammettere.
«Gli unici che hanno preferito altri lidi sono i salentini che sono stati spaventati dalla campagna allarmistica anti Tap, ma ora stanno ritornando. Invece i turisti stranieri non se ne sono mai accorti» ci dice uno dei gestori, che come tutte le persone che incontriamo vuole rimanere anonimo. Perchè alla luce di queso mare ancora cristallino oggi hanno paura che qualche reduce del movimento notap possa arrabbiarsi se ci dicono che avevano sbagliato a fare tanto caos per niente.
Sul porto all’ombra della torretta c’è il gazebo di legno dell’infopoint turistico, chiedo all’operatrice come va la stagione: «Qui del Tap non sa niente nessuno, e gli accessi non sono mai calati, nonostante il Covid» è la risposta. Anche i pescatori non vogliono essere ripresi mentre mi raccontano che sono contenti dell’approdo, che a loro il gasdotto ha portato solo bene. «Se non fosse per i ristori che ci ha dato Tap oggi non potremmo mangiare» dice uno di loro.
L’azienda non può fare opere di compensazione sul territorio, perché il Comune le ha rifiutate. L’unica cosa che sono riusciti a fare è un accordo privato con le cooperative di pescatori, cui hanno aderito tutti e 32 i pescatori di Melendugno. Con un finanziamento iniziale di un milione di euro Tap gli mette a disposizione motori, reti, e tutto l’occorrente necessario per la pesca, fornito tramite aziende locali. «Per noi il problema non è il tubo» mi dice un altro pescatore. «Anzi, almeno quando tap faceva i lavori in mare qualche delfino in meno si vedeva, ora sono ritornati come prima e ci mangiano tutto il pesce. Meglio il tubo dei delfini!».
Hanno paura a dire queste cose in città, «per questo accordo che tutti i pescatori hanno accettato siamo stati visti male, abbiamo dovuto subire minacce e guerra in paese. Ora molti di quelli che ci insultavano si mangiano le mani, perché hanno visto che il tubo non fa danni, e loro sono rimasti senza niente”.
Vado a mangiare il loro pescato in un gazebo sul porto: 12 euro per una barchetta di crudo locale: ricci, tagliatelle di mare, noci, cannolicchi e cozze pelose. Rigorosamente senza limone, ma io sono abituata. Il locale si chiama «L’approdo», proprio come la parte finale del tubo.
Dietro la spiaggia ci sono le dune, intatte nella forma e nella vegetazione spontanea. Una riserva intoccabile. Oltre le dune lo sterrato con chilometri di auto parcheggiate in fila. Qui sotto, il tubo inizia a risalire. Fino all’altezza massima di un metro e mezzo alla valvola di intercettazione. Mi sposto a masseria San Basilio, in mezzo alle campagne. Riconosco il punto dalla torretta che tante volte ho visto nelle foto del famoso muretto a secco distrutto dai manifestanti.
Il primo «danno» degli attivisti. Questo è il luogo degli scontri. Il cantiere recintato col filo spinato. Qui furono eradicati i primi ulivi. Gli attivisti vennero qui a occupare notte e giorno il terreno. Il prefetto istituì la zona rossa, il ministero dell’interno inviò 650 agenti. Il presidente della provincia di Lecce e sindaco di Gallipoli, Stefano Minerva, del Pd, dormiva in macchina per fermare i lavori. Nella sua giunta a Gallipoli siedono insieme esponenti pd e 5 stelle, e Minerva oltre a essere Notap è anche uno di quei sindaci che firmava ricorsi contro il decreto Martina che imponeva fitosanitari per la xylella…
Stare qui oggi, in cui l’unico disturbo è dato dal canto delle cicale, e ricordare ciò che è ha rappresentato questo specifico punto, sede delle lotte anche violente, rende difficile davvero a capire come tutto sia stato possibile. «La striscia di Melendugno» la chiamavano gli attivisti, «Auschwitz» la chiamò Emiliano. Sessantasette le condanne in primo grado ai notap per violenza e resistenza a pubblico ufficiale. Capire perché tanta violenza e tanta contrarietà stando in questo punto oggi è complicato.
C’è solo un blocco in parallelepipedo, una cabina. Meno impattante di tanti ruderi che si vedono nelle campagne salentine, magazzini o pozzi. Se si pensa alle pale eoliche giganti che hanno infestato tutta la Puglia, anche in zone di pregio ambientale e turistico, oltre che a ridosso di centri abitati, e ai pannelli fotovoltaici che addirittura hanno coperto e sostituito interi territori agricoli e rurali, questo è davvero un paradiso.
Una piccola e bassa cabina circondata dagli ulivi. Uno accanto all’altro, l’albero sano e quello mangiato dalla xylella. Quello sano, ovviamente, è quello che è stato appena ripiantato, dopo l’eradicazione e la conservazione nelle canopy a Masseria dal Capitano. Quando si dice che qui oggi gli unici ulivi vivi sono quelli che erano stati espiantati per la Tap è vero, lo vedo con i miei occhi. Ma fa impressione, molta, vederli nello stesso terreno, uno accanto all’altro.
Come pensare che il proprietario di quel terreno oggi ha un ulivo sano salvato dalla Tap, e uno nel frattempo assalito dal batterio. Chi lo avrebbe detto quattro anni fa durante gli scontri? I manager di Tap lo dicevano. È tutto scritto dal 2012. Ma nessuno credeva loro, né i cittadini di Melendugno, né i movimenti no Tap di tutta Italia, né poeti e cantanti, Erri de Luca, politici locali, leader nazionali. Addirittura qualcuno diceva che la Xylella era stata portata apposta per far morire gli ulivi e far passare la Tap.
Intorno alla valvola di intercettazione sono state piantate anche le nuove cultivar e sono stati rimontati tutti i muretti a secco, oltre al rifacimento delle strade. Oggi tanto, attraverso le campagne c’è un paletto giallo, per segnalare che da li sotto passa il gasdotto. In spiaggia i paletti non c’erano perché la profondità di 15 metri non necessita segnalazione. Mentre qui servono per tenere sotto controllo le piantagioni intorno al tubo. Per cinque anni Tap dovrà continuare a monitorare lo stato degli ulivi.
Non solo. Per i prossimi cinque anni, i terreni restituiti ai proprietari saranno oggetto di un’intensa attività di sorveglianza, volta a garantire sia la sicurezza dell’infrastruttura, sia la ripresa della vegetazione interferita. Oltre ai monitoraggi degli ulivi, Tap è tenuta inoltre a svolgere una serie di attività di monitoraggi ambientali, sia a terra che a mare, ed è attivo un numero verde a cui i proprietari terrieri possono rivolgersi 24 ore su 24 per qualsiasi emergenza riscontrata sulla linea del gasdotto o per urgenti richieste circa le attività che possono essere condotte in prossimità.
Ci spostiamo di altri otto chilometri, nella campagna, dove è stato costruito l’impianto di ricezione. Qui non vengono effettuate operazioni di trasformazione del gas né di stoccaggio, ma viene misurato per la successiva immissione nella rete nazionale. Nel Prt c'è la sala di controllo che è la testa e il cuore del gasdotto, con funzioni di controllo e gestione dell’intera condotta, dal confine greco-turco fino alla connessione con la rete nazionale di trasporto italiana.
Al netto dei ripristini, sono state messe a dimora circa 12.000 nuove piante autoctone, e l’azienda volontariamente per ogni arbusto che interferiva col gasdotto, ne ha ripiantati tre. Davvero non si capisce come la natura turistica di questa costa di pregio naturalistico possa essere messa a rischio da un’opera invisibile. Dicevano che avrebbero perso il turismo, e invece è tutto qui.
Siccome per strada nessuno mi riesce a rispondere vado a chiederlo al sindaco Marco Potì, che mi accoglie nella sua stanza con grande gentilezza e simpatia. Prima di salire noto il manifesto sulla plancia comunale del municipio: «Melendugno bandiera blu 2021». Nonostante l’arrivo del tubo, la marina ha conquistato anche quest’anno il riconoscimento, insieme alle 5 vele di legambiente. Anche questo L’azienda lo aveva sempre detto, sono diverse le bandiere blu italiane approdo di gasdotti. Anche se il più famoso del mondo è quello che approda a Ibiza.
La prima cosa che mi salta all’occhio appena entro nella sua stanza è la foto del presidente Sergio Mattarella relegata in un angolino, mentre alle spalle della scrivania del sindaco, accanto alla enorme bandiera no Tap, c’è la foto di Sandro Pertini. Gli chiedo come mai, e parte da qui una lunga, cordiale e piacevole chiacchierata.
«Ci sono rimasto molto male quando Mattarella è andato a Baku a incontrare il Presidente dell’Azerbajan. Un dittatore. Vedi noi siamo contrari a Tap non solo perché arriva a Melendugno, o perché è inutile, e l’estrazione di gas dannosa, ma lo siamo a partire dal fatto che viene dallo Stato di un dittatore, pari alla Turchia di Recep Tayyip Erdogan. E Mattarella è andato fin li per firmare l’accordo con un dittatore negli stessi giorni in cui la polizia caricava i sindaci e i manifestanti. Da quel giorno ho messo la sua foto nell’angolo, premiando un Presidente più serio».
A quel punto gli chiedo se Pertini si sarebbe comportato diversamente. «Si, perché era un partigiano, e sarebbe stato dalla parte del popolo. Perché era socialista. E io ho i suoi stessi valori». Mi racconta della sua storia politica, dello zio sindaco socialista morto prima di passare la poltrona al nipote, nel 2012, proprio quando iniziò la vicenda Tap che ha caratterizzato questi suoi 10 anni di sindacatura. Gli hanno detto che c’è una proposta di legge che vorrebbe consentire il terzo mandato, e forse sarebbe pronto. Altre prospettive politiche non ne vede, è socialista ma lontano dalle sigle ufficiali. Certamente lontano dai 5 stelle, che qui hanno tradito il mandato.
Ricordiamo insieme quel comizio del 2015 di Beppe Grillo quando promise: «Se loro verranno a fare il gasdotto in Puglia da qualsiasi parte, anche con l'Esercito, noi ci metteremo il nostro di esercito». Fino a qualche mese fa negli uffici dei 5 stelle in consiglio regionale c’era lo striscione “Melendugno libera”. Poi, vinte le elezioni, si sono rimangiati tutto. E non è vero, secondo il sindaco, ciò che disse Giuseppe Conte. E cioè che non si poteva più sospendere.
Altro che costi benefici, ci dice Potì «in Grecia e Albania vi erano accordi di Stato firmati con Tap con i quali venivano fissati i benefici degli investimenti sul territorio, in italia non sono mai esisiti». Alle politiche 2018, Potì fece firmare ai candidati un impegno a sospendere Tap in caso di elezione in Parlamento. Lo firmarono tutti, persino Massimo D’Alema che è stato il primo artefice di Tap. Tranne Teresa Bellanova.
Gli altri erano tutti contrari, tutti gli esponenti politici del territorio di tutti gli schieramenti, persino quelli di opposizione. Per tutti Paolo Pagliaro, editore di Telerama una tv locale salentina, storico esponente storico di Forza Italia ora consigliere regionale della Lega di Matteo Salvini. «Siamo stati colonizzati come gli Indiani d’America, non ci resta che piangere» disse quando arrivò la talpa: «Ancora una volta il Salento è stato prima tradito, poi ridicolizzato, e adesso svenduto e deturpato. E siamo ancora all’inizio, questi sono soltanto i lavori di preparazione. Se c’è ancora la possibilità di farlo bisogna fermare tutto: si sta commettendo un errore gravissimo». Qui di deturpato non vedo nulla. Ma chissà se Salvini, sostenitore della Tap, sa cosa dicono i suoi in Puglia. Più vicini a Emiliano che al leader della Lega.
Nessuno oggi ha il coraggio di rinnegare quelle parole, ma neppure di confermarle. Non se ne parla più, e basta. Solo qualche esponente dell’allora governo Renzi, tra tutti Teresa Bellanova che pagò quella scelta arrivando terza nello stesso collegio di Barbara Lezzi, difende quella scelta. Tace il segretario attuale del Pd Enrico Letta, nonostante nessuno del pd fermò Emiliano quando da segretario regionale del Pd (prima che il cdm glielo vietasse) oltre che da governatore ha impugnato decine di autorizzazioni del governo Renzi.
Una cosa che ho sempre notato negli anni, anche stasera dal vivo, è che il sindaco non la chiama mai Tap, ma «multinazionale». Glielo faccio notare e gli chiedo il motivo. «Perchè quella è la compagine societaria e da tale si comporta, non gli interessa del territorio» risponde. Gli chiedo se sarebbe diverso se fosse stata un’azienda italiana, magari pubblica, se fosse stata Eni. Mi dice che, che alla fine c’è Snam che si è comportata anche peggio di Tap, e che comunque sarebbero stati ugualmente contrari a quel tipo di infrastruttura perché l’impatto è lo stesso. «Hanno distrutto i coralligeni dicendo che li avrebbero reimpiantati, biocostruzioni che ci mettono migliaia di anni a formarsi» dice. «Sotto la spiaggia passa un gasdotto di prima specie ad altissima pressione, loro dicono che non sono mai successi incidenti invece si trovano su Google. Sono venuti con i militari, abbiamo avuto incidenti, hanno costruito un impianto di ricezione tra quattro comuni». Ma avevano i permessi, gli dico. «Del Governo, non del territorio» è la sua risposta.
Nel 2012, appena insediato, Potì fece un invito pubblico per istituire una commissione di studio sulla Tap. Andò a presiederla, gratuitamente, il professor Dino Borri, un urbanista del Politecnico di Bari, che presto divenne uno dei massimi divulgatori anti Tap. Attualmente è stato chiamato dal sindaco di Brindisi per fare l'assessore all’urbanistica. Insistiamo nel chiedere quali siano i pericoli dell’opera, che a occhio nudo non vediamo.
Durante gli anni ne abbiamo sentite di ogni: che distruggeva il paesaggio, la barriera corallina, gli ulivi, che produceva emissioni inquinanti e nocive, addirittura un noto oncologo fece un lungo sciopero della fame perché a suo avviso provocava i tumori. Ma oggi che è appurato che tutto ciò non è accaduto, che l'opera c’è e la spiaggia è linda come prima con i turisti che non si accorgono di nulla? «Il rischio eventuale, principio di precauzione».
Ci spiega il sindaco che solo la furbata di aver spacchettato l’opera gli ha permesso l’autorizzazione unica, hanno bypassato la Seveso solo per funzione, e per soli otto metri l’opera in acqua tiene la distanza sufficiente dal fabbricato del lido. «Sono andato dal prefetto a chiedere se i bagnanti in piaggia sono sicuri, mi ha detto: "Tu sei la massima autorità di protezione civile e sanitaria, tu devi decidere"». E lei che fa, si assume la responsabilità di chiudere le spiagge e metter fine di suo pugno alla vocazione turistica di questo territorio ad occhio nudo incontaminato? «E se succede qualcosa di chi è la responsabilità? È la mia. Hanno fatto una bastardata».
Doveva essere fatto a Brindisi? “No. Noi siamo contrari, né qui né altrove. La posizione di Emiliano è di realismo politico, noi non la condividiamo. Anche Nichi Vendola fu il primo a dare parere favorevole, poi si rimangiò tutto ma ormai era troppo tardi» ci racconta Potì: «Che poi il Comune di Brindisi aveva chiesto la bonifica di Micorosa, per questo l’hanno fatto a Melendugno, perché costava di meno». In realtà l’hanno fatto qui perché questa di 11 approdi presi in esame era l’unica area non sic, mentre a Brindisi rientrava nella legge Seveso che la vietava. Questo smentisce cio che continua a dire Emiliano, che lui la voleva ma a Brindisi. Non è vero, a Brindisi non l’ha mai voluta nessuno e non si poteva fare proprio per ragioni ambientali che a Melendugno non c’erano.
E infatti da qualche anno Potì chiede che anche il suo comune diventi area sic: «Grazie agli studi fatti proprio da Tap, abbiamo scoperto che anche a San Foca ci sono i coralligeni, allora abbiamo chiesto alla regione di studiare le carte. La giunta ha messo 100.000 euro per studiare l’habitat marino e grazie agli studi del professor Giuseppe Corriero e del politecnico di Bari, università di Lecce e Arpa abbiamo scoperto che anche qui è possibile fare area sic, ma da oltre un anno aspettiamo una delibera di giunta regionale da Emiliano che ancora non arriva. Anche se l’opera e già fatta io se ho un habitat marino da difendere voglio che mi sia riconosciuto».
Alla fine gli chiedo se il Comune accetta i ristori di Tap. «Finchè ci sono io, mai. Mi sono candidato scrivendo nel programma che non li avrei mai accettati, i miei cittadini mi hanno votato col 65% di preferenze per questo. Ho fatto decine di cause contro, come posso accettare il contentino? Ho un sacco di soldi, ho appena vinto 3 milioni di euro per la rigenerazione urbana, ora ho un riunione con gli altri sindaci per i progetti del Pnrr, che me ne faccio dell’elemosina di Tap?». La stessa posizione del presidente Emiliano, che quando Tap organizzò un corso di alta formazione nel turismo per i ragazzi pugliesi, disse: «Mi auguro che nessun giovane salentino aderisca a questa offerta tradendo la sua terra e che nessun operatore turistico intenda assumere coloro che parteciperanno a queste iniziative».
«Sindaco allora la battaglia è finita?» gli chiedo prima di andare. «No, c’è ancora il processo penale. Finora hanno sempre vinto in tribunale cause amministrative, questa è la prima penale. Qui dimostrerò che avevamo ragione, che non avevano i permessi e che hanno arrecato un danno ambientale. Il giudice deciderà quanto ci devono dare quando perderanno la causa».
Parte civile è anche la regione Puglia: «Se Tap dovesse essere condannata, risarcirà il gravissimo danno che ha fatto alla Puglia: se dovessero essere condannati, ci risarciranno miliardi di euro perché il danno è enorme e il vantaggio è nullo per la Puglia. Di Tap non ci importa, è servita solo per far arricchire la lobby del gas compreso qualche ministro» ha detto Emiliano. Il quale durante l’ultima campagna elettorale ha detto anche che “a Tap finita, il gas non arriverà mai perché in Azerbaijan non ce n’è più». Oggi arrivano 7 miliardi di metri cubi di gas e tra qualche anno raddoppierà.
Una cosa mi chiede il sindaco di scrivere, che da tempo vuole denunciare. Il fatto che a difendere Tap al processo c’è il sottosegretario Francesco Paolo Sisto, che da quando è al governo ha lasciato l’incarico al figlio, «ma non può essere che lo studio di un sottosegretario difenda Tap contro i sindaci. Anche perché il tribunale è stato velocissimo nel condannare i no Tap per lancio di zerbino, e se la prende comoda col sottosegretario».
Saluto il sindaco che mi augura buon rientro a Taranto, non prima di dirmi che lui Ilva la chiuderebbe subito. Prima di lasciare Melendugno vado a fare un salto alla grotta della poesia, un’area archeologica a strapiombo sul mare. Qui i ragazzi fanno i tuffi illegalmente, sono proibiti perché pericolosi e perché col passare degli anni hanno distrutto la falesia che crolla a pezzi. Il Sindaco ha fatto ordinanze con divieto di balneazione ma non riesce a bloccare i tuffi e l’erosione. A un certo punto ha detto che anche la falesia crollava per colpa dei lavori di tap, che però è dell’altra parte. Lascio questo posto con la meraviglia negli occhi.
Al rientro faccio una videocall con Luca Schieppati, country manager italia di Tap. Smentisce la supposizione del sindaco che il tubo sia vuoto (perchè mai del resto l’avrebbero costruito): da inizio anno ha portato 4 miliardi di metri cubi di gas, 20 milioni al giorno, contribuendo a ridurre il gap di due euro al metro cubo che l’Italia ha sempre pagato in più rispetto al Nord Europa. Per il momento i 10 miliardi sono tutti già venduti, ma ogni due anni fanno un capacity market che potrebbe consentire di raddoppiare a 20 miliardi, senza necessità di nuovi lavori per l ‘Italia. Arriva solo gas del mar Caspio, favorendo la diversificazione degli approvvigionamenti.
Gli chiedo se corrisponde al vero l’episodio narrato da Michele Emiliano secondo cui il presidente della regione si sarebbe recato personalmente in Azerbaijan dal ministro degli Esteri azero per chiedere di avere gas a costo del carbone per decarbonizzare ilva. Schiepati mi spiega che loro hanno costruito un’autostrada, portano il gas, ma non è Tap a commercalizzarlo. E che comunque il costo del gas è all’ingrosso, non lo decide un solo ente, e che una cosa del genere non è mai avvenuta. L’autostrada però come oggi porta gas potrebbe con lo stesso tubo domani trasportare miscele, gas rinnovabile o idrogeno. Loro sono pronti.
Quanto alle proteste subite in tutti questi anni, a parte il tempo perso perché a ogni ordinanza di sospensione sindacale, provinciale o regionale, dovevano fare ricorso al Tar e i successivi gradi di giudizio, mi dice che loro hanno costruito un’opera che non hanno abbandonato, ma su cui lavoreranno per i prossimi 50 anni.
Il lavoro di controllo è totale e assoluto, sono dispiaciuti di non essersi fatti capire dal territorio, anche se, dopo le opportune verifiche, tutti i governi, indistintamente dal colore politico, li hanno supportati. Per i prossimi anni sperano solo di raggiungere una maggior pacificazione col territorio: «Noi siamo qui e siamo disposti a investire sul posto, la cosa che più ci spiace è che abbiamo le risorse e la volontà di contribuire alla crescita culturale e formativa dei giovani che qui non hanno molte possibilità di lavoro. Vorremmo arricchire questo territorio».
Territorio che oggi di Tap non parla più, e ha gli occhi puntati altrove: il progetto del parco eolico offshore della Falck a 13 chilometri dalla costa. Tutti i comuni del Salento hanno già detto no, il presidente della Regione Emiliano anche, e ovviamente anche il leghista Paolo Pagliaro. I no Tap diventano no Eolo dopo essere già stati no Triv. Aspettiamo Erri De Luca per raccontargli la poesia.