Le «Batterie Nucleari» eterne, che non sono nucleari e nemmeno troppo eterne
Si parla tanto di Batterie nucleari; il nome non c’entra con la radioattività, ma sono un passo avanti verso stimolatori cardiaci e telefonini eternamente carichi
Da qualche settimana si parla del prototipo di batteria “eterna” presentato dalla cinese Betavolt. Il nome dell’azienda, nonostante la lettera greca, in realtà è l’acronimo di Beijing New Energy Technology, e non è affatto una novità né tantomeno una batteria “eterna” o “nucleare” come viene definita. Tali celle sono infatti già presenti in campo militare e spaziale, ma costituiscono una prospettiva interessante anche nei mercati popolari a patto di risolvere alcuni problemi legati ai costi e ai metodi di produzione.
Intanto sfatiamo un mito: nonostante siano chiamate “nucleari”, nulla hanno a che fare con la fissione dell’atomo, ovvero con il processo che permette alle centrali nucleari di produrre energia, non ci sono bombardamenti né arricchimenti e tantomeno scorie radioattive da smaltire. Bensì, le celle si basano sul cosiddetto decadimento radioattivo di un materiale. Che in questo caso è quello del Nickel-63, un elemento che in natura non esiste e che viene prodotto artificialmente facendo acquisire al Nickel-62 un neutrone in più, diventando quindi quello che in fisica viene definito un radioisotopo. Particella che, però, in quella posizione fa fatica a rimanere (si dice instabile) e per questo si trasforma nel tempo in elettrone, quindi viene liberata, e questo è proprio ciò che serve per fare elettricità, ottenendo una differenza di potenziale con gli strati di “diamante” che stanno sopra e sotto il Nickel-63 come a formare un panino. Avrete già intuito che l’energia per drogare il Nickel-62 e il costo per lavorare il materiale fino allo spessore di soli 2 micron, nonché il diamante per ottenere i fogli di materiale dello spessore di 10 micron, non possono certo rappresentare una tecnologia a basso costo. Né lo può essere il contenitore indeformabile che li racchiude.
Queste “sottilette” diamantate sono semiconduttori definiti “Ultra Wide Band Gap” (Uwbg), hanno una conducibilità termica elevata e la loro resistenza alla “rottura dielettrica”, ovvero la perdita delle caratteristiche che servono, è almeno tre volte superiore a quella dei dispositivi tradizionali. Pertanto, affinché le Betavolt Bv-100 (questo il nome), approdino al mercato consumer ci vorrà tempo. Certamente i vantaggi stanno nella sicurezza, perché non vengono mai emesse radiazioni ionizzanti e quindi pericolose per gli esseri viventi, mantenendo le stesse limitazioni delle batterie che conosciamo, e soprattutto nella durata, che dovrebbe arrivare a decine d’anni. Infine, nelle temperature operative, molto estese, anche fino a -60 °C e a +120 °C, laddove gli accumulatori attuali soffrono oppure esplodono perché sviluppano gas al loro interno. Non si pensi però subito al telefonino “eternamente acceso” come destinazione di queste celle, almeno inizialmente, quanto agli apparecchi elettromedicali portatili, a piccoli robot e a tutti quei dispositivi che devono essere alimentati con affidabilità in ambienti ostili.
La storia della tecnologia ci ricorda anche che su questa possibilità si concentrarono gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica già negli anni Sessanta, e dagli esperimenti fatti nacquero appunto le batterie per impiego sui satelliti artificiali, anche se la tecnologia di allora poneva forti limitazioni in fatto di peso e volume, piuttosto elevati. Da allora, entrambe le nazioni hanno proseguito l’evoluzione, così l’annuncio di Betavolt deve suonare come uno dei possibili produttori e non come l’inventore.
Queste batterie sono però come le altre, ovvero modulari, perciò possono essere composte da dozzine o centinaia di moduli indipendenti ed essere utilizzate in serie e in parallelo, in modo da poter produrre batterie di diverse dimensioni, tensione e capacità. Si consideri che il prototipo è grande 15 x 15 x 5 millimetri, ma con quella che viene definita “densità energetica” (il rapporto tra potenza elettrica e peso, per semplificare), dieci volte superiore a quella delle batterie al litio. Garantendo 50 anni di energia autogenerata, perdono il concetto del numero di cicli di carica e scarica ai quali siamo abituati con le batterie elettrochimiche, fornendo energia in modo stabile, senza variazioni dovute ai carichi (entro quelli previsti) e alle condizioni ambientali (si pensi alla crisi delle celle montate su auto elettriche esposte al gelo). Alla fine del ciclo vita, l’isotopo del nichel-63 decade in rame con un tempo di dimezzamento di circa cento anni, quindi dopo la decomposizione non rappresenterebbe alcun problema ambientale e sarebbe possibile riciclarle in modo economico.
Quale sarà il prossimo futuro è presto detto: Betavolt, ma non soltanto, anche la Californiana Ndb, si sono posti il traguardo del 2025 per proporre un prodotto vendibile, studieranno la possibilità di creare batterie simili anche con altri radioisotopi, dallo Stronzio 90 al Plezio 147, con i quali si pensa di poter creare celle che durino da due a dieci anni, quanto basta per soddisfare molte delle esigenze del mercato civile.