Hacker: l’aristocrazia della società dell’informazione
La Rubrica - Cybersecurity Week
La scomparsa di Kevin Mitnick mi ha fatto riflettere su alcuni aspetti del mondo dell’hacking e sulle persone che la compongono. L’approccio originale dell’hacking è quello di saziare una curiosità e una passione rispetto alle quali molti dei valori tradizionali della nostra cultura occidentale sono visti come arcaici, e le conseguenze dell’agire in tal senso sono considerate irrilevanti. Nell’accettare che la violazione di un sistema informatico sia un’azione ammissibile si pongono di fatto dei nuovi paletti culturali che rimuovono il concetto di proprietà privata. Quale reazione potremmo avere se rientrando a casa trovassimo uno sconosciuto che scartabella nella nostra libreria? Difficilmente gli chiederemmo se vuole in prestito qualche libro e sapere che non ha fatto danni sarebbe soltanto una parziale consolazione. Eppure, la potente molla rappresentata dalla “ricerca” funge anche da ammortizzatore etico, fornendo una giustificazione morale ad azioni che spesso possono essere lesive di certi diritti fondamentali degli individui. Nonostante questo, la comunità hacker è in prima fila nella lotta per la tutela della privacy in Internet.
Una contraddizione? Non proprio, perché non è la violazione del sistema informatico ad essere esecrabile, anzi, richiedendo a volte significative competenze, può acquisire la definizione di “hack”, bensì la finalità può essere malvagia. In tal modo un curioso che “sfoglia” di nascosto l’hard disk di un ignaro utente è un semplice “esploratore” che soddisfa la propria curiosità, mentre la stessa attività svolta da Microsoft per scoprire se quello stesso utente si è abusivamente installato Windows diventa una violazione della privacy. Questo esempio ci porta al secondo aspetto di grande consistenza della cultura hacker: la condivisione delle informazioni.
Nel concetto ormai diffusissimo di software open source si manifestano appieno le origini universitarie e hobbistiche della comunità hacker perché emerge chiaramente un aspetto comune per nulla trascurabile: tutto ciò che creano non ha, almeno in prima istanza, finalità di lucro. L’attività di un hacker è volta alla ricerca, con l’obiettivo di spostare sempre più lontano la linea dell’orizzonte, rendendo visibile una porzione di mondo sempre più vasta. In questo contesto la condivisione delle informazioni diventa essenziale per risolvere problemi che vanno spesso molto al di là delle competenze dei singoli.
L’informazione genera quindi nuova informazione, estendendo la conoscenza e la comprensione dei sistemi informatici con la conseguenza che diventa possibile ampliarne le capacità. L’idea di fondo è quella che il progresso non ha prezzo, e su questo punto l’etica hacker cozza pesantemente con uno dei principi insegnamenti in tutte le business school del mondo, secondo il quale l’informazione rappresenta un vantaggio competitivo per chi la possiede. Per decenni, Microsoft non è stata invisa alla comunità hacker perché Windows è a pagamento, ma perché l’azienda di Redmond non divulga i cosiddetti codici sorgente del suo sistema operativo, impedendo un possibile significativo miglioramento nello sviluppo della tecnologia. D’altra parte il software open source ha determinato lo sviluppo di migliaia di aziende in tutto il mondo che producono un giro d’affari misurabile in miliardi di dollari. Questa situazione determina una interessante riflessione che attiene al valore attribuito dalla comunità hacker all’informazione. Esso travalica di gran lunga la semplice valutazione economica, ma pone l’informazione in un sistema etico che rende centrali la conoscenza, la sua diffusione e il controllo che si può acquisire su di essa.
Si configura così una sorta di “aristocrazia intellettuale” orientata alla diffusione del proprio sapere e la cui credibilità sarà legata esclusivamente alle capacità dimostrate. Un’aristocrazia senza potere o comunque con un potere molto limitato, quindi, un’élite che si ritiene illuminata, il cui unico orientamento generale è uno spiccato anti-autoritarismo privo di qualsiasi connotazione politica, in quanto la tecnologia non può collocarsi in alcun campo, nella sua qualità di strumento basato su regole di matematica certezza.