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Cyber Security

Tutta la verità su Telegram

Cosa si nasconde dietro l’app di messaggistica considerata il massimo in fatto di riservatezza, e dunque anche «covo» di ogni genere di attività? Il suo fondatore è stato arrestato: da lì parte la risposta.

Tempi duri per spacciatori, terroristi, truffatori, killer su commissione e ricattatori sessuali: il servizio di chat Telegram - fino a oggi il «safe haven», il rifugio sicuro, dei criminali di mezzo mondo per via della riservatezza che garantisce agli scambi di messaggi privati - è in procinto di diventare «trasparente». «Tutti i contenuti problematici che abbiamo identificato nella ricerca non saranno più accessibili» ha assicurato il ceo dell’app, Pavel Durov, ai suoi 900 milioni di utenti attivi. Il che, tradotto, significa che l’azienda tecnologica russa (ma con sede a Dubai) sta modificando il software e determinate funzioni proprio allo scopo di sventare attività illecite di truffatori. Meglio non illudersi però: perché non è esattamente una svolta all’insegna della trasparenza quella del «Mark Zuckerberg della Russia», la cui fortuna è stimata in 15,5 miliardi di dollari. Né la sua è un’illuminazione sulla via di Damasco. Tutt’al più un’intuizione dei suoi avvocati che così gli hanno impedito di finire in galera a vita, visto che è appena finito con le manette ai polsi.

Da quando il servizio di chat è entrato in funzione 11 anni fa (2013), infatti, Telegram si è rivelato uno strumento di comunicazioni criptate assai utile nelle mani di molti; soprattutto della criminalità, guadagnandosi per questo recensioni non proprio lusinghiere. Come quella di Olga Svistunova, security expert di Kaspersky, la più grande azienda al mondo di sicurezza informatica: «Grazie alle sue potenti funzionalità di automazione, i truffatori hanno trasformato Telegram in una nuova via per le attività darknet, tra cui il phishing e la vendita di dati rubati». Paladino della privacy a ogni costo, insieme al fratello Nikolai (matematico e programmatore, si dice sia il genio tra i due) Pavel Durov sinora aveva ostinatamente rifiutato qualsiasi ingerenza o controllo governativo esterno, Cremlino compreso: con la sua app ha innalzato un muro contro le rogatorie internazionali, anche quando queste avrebbero permesso di sventare centinaia di migliaia di crimini, diventando uno scudo anche per i delinquenti.

Ironia della sorte, presto è stato lo stesso Durov a trasformarsi in criminale. Almeno questo è ciò che sostiene la procura di Parigi, che ha spiccato nei suoi confronti un mandato di arresto, ritenendolo responsabile di aver «coperto» o come minimo «non frenato» sia i contenuti estremisti e terroristici che viaggiano giornalmente sulle chat private dell’app sia le numerose attività illegali - traffico di armi, spaccio di droga, scambio di materiali pornografici e pedopornografici, estorsioni eccetera - che si alimentano dello scudo e della segretezza che i server di Telegram hanno garantito sinora ai peggiori criminali che abitano questo pianeta. Pavel Durov è quindi stato arrestato il 24 agosto scorso, non appena atterrato all’aeroporto Le Bourget di Parigi, accusato di «scarsa moderazione dei contenuti diffusi nell’app di messaggistica, contribuendo alla diffusione di materiale illecito». Rilasciato su cauzione (5 milioni di euro) dopo un lungo interrogatorio, resterà in Francia per tutto il tempo delle indagini e dovrà presentarsi alla polizia due volte a settimana.

Cosa abbia fatto scattare le manette per l’enigmatico imprenditore russo è questione ancora da approfondire, anche per via delle implicazioni geopolitiche e di spionaggio che si celano dietro questa manovra degli inquirenti francesi. Ai quali non sarà sfuggito, per esempio, il fatto che solo quattro giorni prima del suo arresto, il 20 agosto, Durov si trovava a Baku, capitale dell’Azerbaigian, nelle stesse ore in cui nella capitale si trovava anche il suo più illustre connazionale: nientemeno che il presidente Vladimir Putin, scollatosi dal Cremlino per una delle sue rarissime visite all’estero. «Si sono incontrati» giurano alcune fonti dell’intelligence occidentale. A confermare indirettamente la circostanza è stato - su Telegram - Baza, un canale pro Mosca, che ha affermato: «Funzionari dell’amministrazione presidenziale hanno offerto a Putin di organizzare un incontro con Pavel Durov». Anche se poi Putin, secondo la stessa fonte, avrebbe rinunciato all’ultimo per una «ragione sconosciuta». Soprattutto, a essere sconosciuto è l’argomento dell’incontro, che sia avvenuto o meno. Che cosa avranno avuto da dirsi il capo di un servizio di messaggistica istantanea e un capo di Stato in guerra? È proprio ciò che cercano di capire oggi i magistrati. E i giornalisti più maliziosi si chiedono se Durov non stia già collaborando.

Può essere stato quell’incontro ad agitare le agenzie di servizi segreti occidentali, preoccupati soprattutto dell’uso che fanno di Telegram le truppe russe sul fronte ucraino, attraverso il quale scambiano informazioni, posizioni e codici per alimentare la guerra combattuta e la relativa propaganda. E così, alla prima occasione, i francesi hanno trovato il modo di chiederglielo direttamente. Il pretesto è l’impegno di Parigi nella lotta alla diffusione di contenuti illeciti tramite la rete e le app di messaggistica, da cui è derivata la legge Lopmi (French Interior Ministry’s Orientation and Programming Law), promulgata nel gennaio del 2023, che disegna un quadro giuridico progettato per combattere la criminalità informatica, dove anche gli amministratori delle piattaforme tecnologiche sono ritenuti direttamente responsabili delle attività illegali condotte attraverso i loro servizi. Questa legislazione pionieristica condanna la «complicità nell’amministrazione di una piattaforma online per consentire una transazione illecita, in una banda organizzata», con pene che arrivano fino a 10 anni di carcere e multe di mezzo milione di euro. Le chat segrete di Telegram sono state una grande ispirazione per i legislatori: perché l’impunità rappresenta uno dei motivi - forse il principale - per cui il social network è diventato così popolare non solo tra chi è molto attento alla propria privacy, ma anche tra chi intende delinquere.

Eppure, contrariamente a quanto si ritiene, Telegram è persino meno sicura di altre normali app di messaggistica, perché il programma non ha impostata di default la cosiddetta «crittografia end-to-end» per mezzo della quale le chat viaggiano in modalità client-server e che invece rendono «l’intercettazione delle conversazioni teoricamente impossibile» come afferma in proposito Pierluigi Paganini, esperto di cybersecurity. Il che significa, in altre povere, che se si escludono le «chat segrete», quando i messaggi standard arrivano ai server, potrebbero di conseguenza essere letti o persino confiscati. Insomma, in teoria le comunicazioni sono accessibili a ogni autorità governativa che sia in grado di obbligare Telegram a fornire le chiavi di accesso per quei server. L’unica ragione per cui sinora ciò non è avvenuto è che la sede legale del social della discordia si trova a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, e secondo la legge locale non deve sottostare alle norme di trasparenza e legalità di altri Paesi. Norme alle quali invece sono sottoposte sia WhatsApp che Signal, ovvero i principali competitor dell’app di Pavel Durov.

«Telegram non ha alcun tipo di privacy» conferma Irina Tsukerman, avvocato e analista dell’Arabian Peninsula Institute. «È una trappola per dissidenti, oppositori e guerrieri della libertà di parola. Il suo messenger è significativamente meno criptato persino di Whatsapp, che non è noto per essere particolarmente sicuro e non regge il confronto con i messenger criptati di uso pubblico più noti, come Signal. Inoltre, le presunte protezioni offerte dalla politica dichiarata di Telegram sono un’illusione. Non esiste un chiaro meccanismo di applicazione. E ci sono storie di membri di partiti di opposizione, in Russia, rintracciati dai servizi di sicurezza poco dopo aver usato Telegram - proprio perché l’app condivide i dati con i governi degli Stati in cui opera e non offre alcuna protezione tecnica. Gli utenti credono nella sua privacy perché sono stati condizionati a crederci, ma si tratta di un “fenomeno da imperatore nudo”». Dunque nient’altro che una forzata illusione collettiva, come nella favola di Hans Christian Andersen. Durov, leader carismatico di un sistema fraudolento, assurto a simbolo di una nuova generazione d’imprenditori russi fino a quando, come Icaro, non si è avvicinato troppo al «sole che abbaglia il Cremlino», ha finito inevitabilmente per bruciarsi.

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