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(Ansa)
Difesa e Aerospazio

La tecnologia nella guerra Israele-Hamas

Laser, droni, visori quanto possono contare nelle strade e nei cunicoli di Gaza?

Pensate di dovervi nascondere sottoterra, ma al tempo stesso di non poter rinunciare a comunicare. Potete spostarvi rapidamente ma in modo limitato sfruttando una rete di tunnel, ma quando vi trovate lì le onde radio non entrano né escono, se non in modo imprevedibile, e i telefonini non funzionano, come neppure le ricetrasmittenti. Comunque le avete già spente perché una delle tecnologie usate da chi vi vuole neutralizzare è proprio quella di intercettare il traffico telefonico sia dalle celle della rete verso i portatili, sia i deboli segnali che i telefonini emettono cercando di agganciare una rete, sia essa telefonica gsm (2-3-4-5G) oppure WiFi. Ma non ascoltare segnali significa soltanto che non li stiamo ricevendo, non che non ce ne siano altrove; così come trasmettere non significa riuscire a farsi ascoltare. Diventa una guerra elettronica e questa è piena di inganni: quando il nemico pensa di avere individuato quell’utenza parte l’attacco.

Una vita molto diversa da quella che facciamo tutti noi, abituati a lasciare wifi e bluetooth sempre accesi per connetterci a casa come in automobile, ma in guerra se non si fa attenzione si muore. Lo fecero anche gli ucraini con i russi qualche mese fa, sfruttando la concentrazione di segnali proveniente da un particolare edificio all’interno di una base militare. Un colpo, cento morti. E ora a Gaza è la stessa caccia al segnale per individuare i militanti di Hamas. Che non hanno divisa, che non si distinguono dai civili perché nella guerra contemporanea non ci sono uniformi ma ci sono errori che costano la vita.

E poi c’è il mare, una via di comunicazione ampia, difficile da controllare, che consente di passare i confini mettendosi una volta al sicuro, l’altra in condizione di colpire. Ecco, allora, i limiti e le difficoltà israeliane a Gaza: senza un’invasione capillare non si può bonificare il territorio, ma una tale impresa è per definizione lenta e pericolosa; senza bombardamenti sui siti ritenuti strategici non si possono decapitare i comandi delle cellule, ma l’approssimazione causa inevitabilmente effetti collaterali, che poi sono gli innocenti, intesi come i non belligeranti, che muoiono. Anche all’interno della medesima famiglia, c’è una madre con figli piccoli ma c’è il maggiore che combatte.

Colti di sorpresa, gli israeliani si sono resi conto che nonostante 16 anni di blocco la Striscia di Gaza conserva ancora i suoi misteri e, anzi, se ne sono creati di nuovi. Così anche se lo scopo della risposta annunciata è neutralizzare i responsabili dell’uccisione di civili, la lezione appresa dalle precedenti offensive israeliane conta: Gaza è una delle aree più densamente popolate del mondo, compiere raid è complicatissimo e la milizia da colpire totalmente confusa nella popolazione palestinese. Non si sa chi indossa i telefonini come i mitra. Anche usare raggi infrarossi e laser (Lidar) per scovare tracce della presenza di armi o altri segni che possano localizzare un bersaglio è poco efficace. Lo sanno bene i soldati regolari, lo insegnano bene i reparti di ogni nazione che abbia partecipato alle missioni in Medioriente, Irak, Siria e Kuvait.

Si possono infiltrare droni ma ciò che avviene sotto un tetto rimarrà un mistero; si può cercare casa per casa ma si lascerà sempre il tempo ai miliziani per spostarsi. Ogni casa, cortile, rifugio potrebbe essere un covo o un arsenale. E ogni esplosione andata a segno, con la distruzione di un centro militante e magazzino di armi, viene vanificata in poche ore dalla ricostituzione di una nuova cellula. Così la tragedia di sabato sette ottobre è la prova che la strategia di Israele è arrivata a un punto morto, e anzi, che essa non ha neppure considerato i rischi di una destabilizzazione regionale.

Le forze armate israeliane sono state ingannate da una infodemia che non consentiva di vedere con chiarezza che cosa stesse per accadere e che oggi non permette di vedere quale sia il reale stato di capacità offensiva – ma non per forza militare – dei palestinesi. Ironia della sorte i soldati di Gerusalemme hanno fatto fin troppo affidamento sui sistemi di sorveglianza di cui è dotata la barriera di sicurezza di 65 km che divide Israele dalla Striscia di Gaza, un confine di filo spinato con telecamere e sensori, fortificata anche con una base di cemento che tenta di impedire la costruzione di tunnel. Ma se mentre vengono lanciati missili e razzi i cecchini sparano alle videocamere di sicurezza e un esercito di bulldozer sfonda in oltre trenta punti il muro alto sei metri e spesso uno, se sulle torri delle vedette piovono droni con etti di esplosivo, a parte far scattare l’Iron Dome si può soltanto sparare a quelli che appaiono come miliziani, ma che sono soltanto l’avanguardia di un esercito di 1.500 terroristi che armati attraversavano il confine su moto e auto ma anche motoscafi lungo costa e paracarrelli per aria.

Eppure, l’intelligence stava ascoltando e analizzando interi spettri di radiofrequenza senza capire che cosa stesse accadendo, ed anche se l'intelligence riportava un improvviso aumento di traffico nelle reti di comunicazione di Hamas, le autorità non hanno saputo interpretare la situazione dentro a quel muro, individuando la concentrazione logistica che si è trasformata in arsenale. E quando si crede che la tecnologia sia infallibile si arriva anche a pensare che tutti quei soldati in quel luogo, soltanto per sorvegliare l’elettronica che sorveglia a sua volta, in fondo non servano. E a torto, nonostante la tanta elettronica in campo, si comincia a credere anche che Hamas non si voglia impegnare in un conflitto aperto. Un tragico errore.

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Sergio Barlocchetti

Milanese, è ingegnere, pilota e giornalista. Da 30 anni nel settore aerospaziale, lo segue anche in veste di analista. Docente di materie tecniche presso la scuola di volo AeC Milano è autore di diversi libri.

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