La casa di carta, l'intervista a Rio: "Venite a salvarmi"
Incontro con Miguel Herrán, il cui arresto obbliga la banda a riunirsi per un nuovo spettacolare colpo
È tutta colpa di Rio. O per le moltitudini di fan della Casa di carta, tutto merito suo. Se non si fosse fatto catturare dalla polizia, i suoi compagni se ne starebbero ancora a godersi il bottino sotto il sole della Thailandia o di qualche sperduto atollo tropicale. Se non fosse finito in catene, il Professore non avrebbe dovuto inventarsi un altro impeccabile piano dei suoi per liberarlo. Resta da capire quale sarà il nesso tra una rapina alla banca centrale spagnola e la scarcerazione coatta di un prigioniero, l’idea, comunque, sarà «fare molto rumore. Un casino mai visto finora». Parola del Profesor in persona. Senza l’arresto di Rio non ci sarebbe una terza parte della serie, disponibile da oggi su Netflix. Pretesto logico (la banda è una famiglia, se un suo componente finisce in pericolo bisogna mobilitarsi in massa per soccorrerlo), manovra astuta per rimettere in movimento una produzione su cui era calato il sipario, per cavalcare l’onda di un travolgente successo globale: è diventata il titolo non in lingua inglese più visto di sempre su Netflix, ha vinto un premio Emmy, oltre a scatenare un culto isterico per i suoi protagonisti con la tuta rossa, ognuno con lo pseudonimo di una città del mondo.
Dietro Rio ci sono i modi schietti e spiritosi di Miguel Herrán, 23 anni, 5 milioni di follower su Instagram, dove ostenta volentieri il suo fisico scolpito e una passione smisurata per le moto. Era un signor nessuno in patria, finché nel 2016 non ha vinto il premio Goya come miglior attore rivelazione con il suo film d’esordio, A cambio de nada. È rimasto un illustre sconosciuto fuori dai confini del suo Paese, finché sullo schermo non è caduto tra le braccia di Tokyo (Úrsula Corberó), con cui forma una delle coppie da fiction più sensuali della storia recente della tv. Oggi è una celebrità internazionale e il motore della storia della nuova stagione: Panorama l’ha intervistato per sbirciare sotto il cofano. Per tentare di estorcergli il più possibile.
Miguel, innanzitutto come stai? Nel trailer della terza parte abbiamo visto che ti hanno legato, torturato, strapazzato un bel po’.
Sto bene, grazie, le botte sul set per fortuna non erano vere, qualche volta mi è stato anche dato da mangiare (ride, ndr). Diciamo che è il mio personaggio a non passarsela benissimo.
Come hai reagito quando hai scoperto che dipendeva tutto da te, che i tuoi compagni si sarebbero riuniti al solo scopo di liberarti?
Mi sono trovato parecchio in difficoltà, mi sentivo addosso tutta la responsabilità di un ruolo complicato. Quello di chi non gioca, ma aspetta siano gli altri a giocare per lui. È una sensazione duplice: capisci quanto sei importante, ma non sei parte attiva di quello che i tuoi amici stanno facendo per te.
Come cambierà la serie e in cosa rimarrà fedele al passato?
Resteremo la banda capitanata dal Professore e l’azione ricalcherà, in grande, lo stile della prima rapina. Diverse saranno le storie e le relazioni tra i protagonisti: il loro modo d’interagire evolverà, sarà più profondo.
E Rio, è cresciuto? In passato lo hai definito un tipo molto sveglio ma molto tonto. Hai aggiunto che è imbarazzante dal punto di vista sociale. Non sei stato generoso con lui.
Ha un’intelligenza informatica incredibile, però ha vissuto la maggior parte della sua vita in una stanza davanti al computer. Non ha mai avuto l’occasione di sperimentare un’uscita con gli amici o una relazione con una ragazza. Le cose cambieranno drasticamente nella nuova stagione: anche lui parteciperà a una battaglia, però dentro sé stesso.
Il suo rapporto con Tokyo che ruolo avrà in questo mutamento?
Mi spiace, non posso dire nulla, sarebbe uno spoiler (stavolta ridacchia soddisfatto…).
Puoi dirci almeno com’è stato girare le sequenze bollenti sul set? Qualche imbarazzo?
Le abbiamo portate a termine con la stessa normalità di tutte le altre scene, perché sappiamo che sono funzionali al racconto. E poi con Úrsula non c’è nessun tipo di vergogna, come nessuna tensione sessuale. Conosco lei, conosco il suo compagno, ci rispettiamo molto.
Qual è il tuo personaggio preferito della serie? E, secondo te, chi è il più sottovalutato?
Le risposte coincidono: finora è stato Arturito. Crea dibattiti, conflitti, discussioni. È coraggioso e anche codardo, ha mille sfaccettature. C’è bisogno di figure così per stemperare il pathos della storia principale.
A enfatizzare il pathos, invece, ha provveduto la canzone Bella ciao. Torna nei momenti più potenti della narrazione. La sentiremo ancora?
Chi lo sa, spero di sì. È fantastica, perfettamente azzeccata, in linea con La casa di carta.
Ti sei spiegato perché la serie sia piaciuta tanto al pubblico?
Credo che la maggior parte della gente sia scontenta del sistema economico nel quale vive. Perciò, assistere a un colpo di stato come il nostro, in cui le persone comuni non vengono in alcun modo ferite o coinvolte in maniera aggressiva, può rappresentare un fattore d’identificazione. Il pubblico si è immedesimato nello spirito della banda, nella sua capacità di condividere, di aiutarsi a vicenda.
Pensi che la tipologia dei personaggi portati sullo schermo, tutti emarginati, sofferenti, con un passato complicato, abbia favorito tale processo d’immedesimazione generale?
Direi di sì. E poi gli interpreti sono delle fasce d’età più varie, è un modo per chiamare in causa fette di spettatori ampie.
Una serie televisiva riesce ad arrivare dove i libri o l’informazione si fermano?
La tv ha un linguaggio diretto e mondiale, come l’arte e la musica. Se c’è una cosa che posso affermare della Casa di carta, è che sa trasmettere emozioni.
A te e agli altri membri del cast in particolare: vi ha stravolto la vita.
Già. In Francia, in Italia, in America Latina mi è difficile camminare per strada, non posso andare al ristorante perché si riempie di fan. In Spagna mantengo il mio angolo felice, riesco a ritagliarmi dello spazio per me. Il successo è stato uno tsunami, ma non tornerei indietro.
Dove saresti ora se non facessi l’attore?
Se posso rispondere senza tabù, penso che non sarei ancora riuscito a trovare la mia strada. Non starei facendo niente, al massimo il meccanico. Questo lavoro mi ha insegnato moltissimo.
Cosa, per esempio?
A smetterla di giudicare la gente. Prima badavo troppo all’aspetto fisico, a quello che indossava chi avevo davanti, a come si atteggiava. Calarmi in diversi personaggi mi ha permesso di capire che le persone sono fatte in un certo modo per ciò che hanno vissuto, per la storia che si portano sulle spalle.
A proposito di storie, La casa di carta ne avrà altre da raccontare una volta conclusa questa che stiamo per vedere?
Non lo sa nessuno, è possibile. Dipende dal pubblico, si va avanti finché la serie funziona. Chissà, magari arriveremo fino alla ventottesima stagione. Per allora mi auguro che vedremo una Tokyo calma, finalmente sedentaria...
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