Gomorra: perché i magistrati hanno criticato la serie tv
Dure polemiche sulla fiction di Sky, giunta alla terza stagione. "La nostra è una fiction, non un documentario", risponde l'attore di Gomorra, Marco D'Amore
Una rappresentazione folcloristica dei clan e troppo patinata. Si riaccende in maniera prepotente il dibattito sulla "pericolosità culturale" di Gomorra, giunta alla terza stagione. Non è la prima volta che attorno alla serie tv di Sky s'innesca una polemica sulle modalità con cui viene raccontata la criminalità organizzata, ma questa volta a entrare a gamba tesa nella diatriba sono stati tre super magistrati impegnati in prima linea nel contrasto alle mafie.
Perché i magistrati attaccano Gomorra
Mentre Gomorra 3 macina ascolti in crescita e la serie con Marco D'Amore, Salvatore Esposito e Maria Pia Calzone si conferma uno dei cult delle ultime stagioni televisive (venduto persino all'estero), tre importanti magistrati accusano la fiction di "umanizzare" in maniera eccessiva i boss e la criminalità organizzata.
Il primo è stato il Procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, ospite domenica 3 dicembre di Lucia Annunziata nella trasmissione In 1/2 ora. "Non guardo Gomorra e nessuna di queste serie. Ma credo che evidenziare i rapporti umani come se la camorra fosse un'associazione come tante altre non corrisponda a quello che realmente è, fatta soprattutto di violenza".
Le accuse del Procuratore Borrelli contro la serie di Sky
Ancora più circostanziate le critiche del Procuratore aggiunto antimafia Giuseppe Borrelli, capo della Dda di Napoli, durante un incontro con gli studenti delle scuole di Bologna dal titolo Come le mafie persuadono i giovani. Secondo Borrelli, l'errore di Gomorra è quello di fornire una rappresentazione folcloristica del crimine organizzato.
"Gomorra è sufficiente a spiegare il fenomeno o è una rappresentazione tranquillizzante che limita la nostra percezione del fenomeno mafioso?", si è domandato Borrelli. "La camorra è solamente traffico di droga, omicidi ed estorsioni o invece quelle rappresentate sono le azioni di una camorra passata che in realtà si evolve e che non vuole essere vista e nemmeno raccontata?".
Il punto dirimente per il Procuratore è che la rappresentazione della camorra è ferma a omicidi, estorsioni e traffici illeciti, e non si è fatto un passo avanti. "Fornire quel tipo di rappresentazione ha in sé l'elemento della pericolosità di distogliere da questa nuova configurazione della camorra, che ha fatto un salto profondo rispetto a dieci anni fa".
Quei boss "simpatici"
Un altro carico da novanta lo ha poi aggiunto Nicola Gratteri, il Procuratore della Repubblica di Catanzaro, che già nel 2016, ospite di Lilli Gruber, aveva sostenuto come, pur nella finzione televisiva, Gomorra potesse fare del male sulla generazione di giovani. "Identificano in quella falsa realtà rappresentata dalla tv il vero. Ma non si racconta mai la vera ferocia dei boss", osserva Gratteri criticando il fatto che questi personaggi rischino di risultare persino "troppo simpatici". "Manca il messaggio, il dire che questi non sono invincibili e forti. Questo rischia di rappresentere un danno per la lotta alle cosche".
Di Ciro l’ Immortale ce n’è uno solo! #Gomorra3pic.twitter.com/n5rIOfLk9U
— Sky Atlantic HD (@SkyAtlanticHD) 5 dicembre 2017
La risposta di Marco D'Amore
Una replica alle critiche mosse dai magistrati arriva da Marco D'Amore, il Ciro di Marzio di Gomorra, uno degli attori più amati della serie assieme a Salvatore Esposito. "Noi partecipiamo da artisti e anche da cittadini a tratteggiare uno dei profili possibili del nostro paese", ha spiegato al Corriere della Sera. "Ovviamente lo facciamo con l’intento da una parte di rendere incredibile e meraviglioso il racconto cinematografico, e dall’altra per partecipare ad un fortissimo atto di denuncia che è partito dall’operato di Roberto Saviano".
D'Amore ci mette la faccia, difende il prodotto e fa un raffronto con i Soprano, leggendaria serie che raccontava la vita dei boss italo-americani, raccontata con estrema libertà. "La nostra è una fiction, non un documentario. Siamo liberi di raccontare la savana dal punto di vista del leone o della gazzella. E non penso sia sbagliato un modo o l’altro. Però bisogna stare attenti, c’è il rischio di scivolare verso la censura", conclude.
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