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Le colonne sonore che hanno reso immortale un film

Le colonne sonore che hanno reso immortale un film

Compie 30 anni Pulp Fiction, opera di Quentin Tarantino dove i brani che lo accompagnano fanno parte della narrazione quanto la sceneggiatura. E non è il solo caso. Viaggio nei «cult movie» le cui note hanno fatto la storia.


Ci voleva Quentin Tarantino per convincere John Travolta a esibirsi di nuovo su una pista da ballo diciassette anni dopo La febbre del sabato sera. E ci voleva sempre Quentin Tarantino per sostituire nell’immaginario collettivo Il Travolta/Tony Manero con il Travolta/Vincent Vega, gangster perennemente «strafatto» che danza con la pupa del boss, Mia Wallace (Uma Thurman), sulle note di You Never Can Tell a cura di Chuck Berry. È una delle scene cult di quella scatola magica di riferimenti, citazioni, violenza e umorismo selvaggio nota come Pulp Fiction, che trent’anni fa ha cambiato per sempre il cinema imponendo una nuova e rivoluzionaria tecnica cinematografica: il film puzzle. Puro e geniale caos narrativo che si scompone e si ricompone magistralmente tenuto insieme da quell’ingrediente in più che è la musica.

La storia del cinema è disseminata di canzoni per sempre connesse alle scene a cui si accompagnano, ma Tarantino ha fatto della colonna sonora un’arte, qualcosa che precede addirittura la sceneggiatura. «Quando ho un’idea, mi siedo davanti alla mia sterminata collezione di vinili e inizio a far girare il piatto cercando di scovare nelle canzoni la personalità e lo spirito del film». Brani già pubblicati che «abbandonano» la loro casa naturale, l’album o il 45 giri in cui sono contenuti, per fondersi con le sequenze della pellicola. Per l’eternità. Basti dire che Pulp Fiction inizia con il rifacimento di un’antica canzone popolare greca, Misirlou, trasformata in un travolgente pezzo di surf rock dal leggendario chitarrista americano Dick Dale.

Per non parlare di Girl, You’ll Be a Woman Soon, che nel film accompagna la sensuale danza solitaria di Uma Thurman. Il regista scovò in un negozio di dischi usati il rifacimento del classico di Neil Diamond a cura di una band americana degli anni Novanta, gli Urge Overkill. Lo fece ascoltare a Uma/Mia che se ne innamorò follemente. Il resto è storia del cinema. Per Pulp Fiction Tarantino avrebbe voluto a tutti i costi l’hit mondiale dei Knack, My Sharona, ma la band a sorpresa negò l’autorizzazione, così la scena in cui Marsellus Wallace viene stuprato dal proprietario di un banco dei pegni e da una guardia giurata è accompagnata da Comanche, una perla dal repertorio di un semisconosciuto gruppo californiano degli anni Sessanta chiamato The Revels. C’è un gusto tutto tarantiniano nel riportare a galla canzoni che non hanno mai avuto passaggi radiofonici, incise da artisti senza fama, autori a volte di pezzi formidabili che si sono persi nei meandri più bui del music business. Non ci sono tabù, vale tutto, compreso riciclare pezzi che sono stati colonne sonore di altri film come His Name Was King, incisa da Luis Bacalov e Edda Dell’Orso inserita in Django Unchained, ma presente nel commento sonoro dello spaghetti western 70’s Lo chiamavano King.

Quando non sono composte ad hoc da maestri come Ennio Morricone, Hans Zimmer o John Williams le soundtrack sono il frutto della scelta mirata tra milioni di canzoni. Scelte che diventano genialità creativa come l’abbinamento tra The End dei Doors e il rumore delle eliche degli elicotteri in Vietnam che si fonde con il fruscio delle pale del ventilatore nella stanza d’albergo del capitano Wilard in Apocalypse Now. Per l’occasione Francis Ford Coppola chiese e ottenne un remix del pezzo dei Doors che mettesse ancor più in evidenza la voce di Jim Morrison. Un binomio inscindibile, come quello che lega per sempre la sequenza dell’alba spaziale di 2001: Odissea nello spazio alla folgorante potenza orchestrale e percussiva di Così parlò Zarathustra di Richard Georg Strauss. Ma andando oltre il fascino della musica classica, Stanley Kubrick è riuscito nel suo film capolavoro a esaltare, come nessun altro prima, il suono del silenzio della vita nello spazio, tra orizzonti a perdita d’occhio e nessun rumore.

Il lato più spaventoso e oscuro dell’universo. E un incontro inscindibile tra arti diverse quello tra cinema e musica, che dà vita a un nuovo linguaggio fatto di composizioni originali come nel caso della colonna sonora di Mediterraneo (Oscar per il miglior film straniero nel 1992) e, come dicevamo, di straordinari ripescaggi dall’infinito catalogo delle edizioni musicali di ogni tempo. Il che fa delle colonne sonore un genere musicale a sé che prescinde dai trend del momento. Esemplare il caso della soundtrack di The Crow, uscita nel momento del massimo boom dell’era grunge e che musicalmente era quanto di più distante ci potesse essere dal suono di Seattle (The Cure, Rollins Band, Nine Inch Nails e Race Against The Machine). Un album totalmente demodé che ha venduto la bellezza di tre milioni di copie in una manciata di mesi…

È andata così anche per la colonna sonora di Trainspotting. Pubblicata in tutto il mondo mentre nelle classifiche impazzava Killing Me Softly dei Fugees, riportò in auge i classici Lust for Life e Perfect Day di due leoni del rock: Iggy Pop e Lou Reed. Un risultato che aveva raggiunto qualche decennio prima anche George Lucas, che per raccontare in American Graffiti la fine dell’età dell’oro dei ragazzi con la brillantina e dell’America alla Happy Days, investì una cifra enorme del suo budget (80 mila dollari nel 1972) in canzoni. Da Rock Around The Clock di Bill Haley a Surfin’ Safari dei Beach Boys, a Johnny B. Goode di Chuck Berry. Un’onda di suoni nostalgici che arriva nel cuore profondo della provincia a stelle e strisce attraverso il programma radiofonico del deejay Lupo Solitario, l’artefice della colonna sonora di un mondo che stava per finire.

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