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La fine del Woke: il politicamente corretto ha stufato

La fine del Woke: il politicamente corretto ha stufato

Per anni aziende e major si sono adattate (come tutti) alla dittatura del politicamente corretto, alla rappresentazione esagerata del mondo Lgbt+, alla genuflessione verso le più sparute minoranze. Adesso si cambia. E chi non ha capito ci sta rimettendo.

Biancaneve arriva al cinema senza i sette nani (ceti subalterni, orrore) e la Disney subisce un flop mondiale. La Jaguar rivisita il marchio in chiave arcobaleno e con uno spot getta alle ortiche un secolo di ruggiti sul cofano. Gucci ingaggia Demna Gvasalia, lo stilista che aveva utilizzato bambini in una campagna fetish di Balenciaga, e perde tre miliardi in Borsa. Tre indizi continuano a fare una prova. Quale? Quella che il woke sta scomparendo dietro l’orizzonte. Tramontato, eclissato. E nessuno ha in mano il fazzoletto per asciugare le lacrime.

«Sembrava una rivoluzione permanente, è solo la coda colorata di un capriccio mandato a nanna dalla restaurazione trumpiana» ha scherzato il Wall Street Journal, convinto che ogni mossa sulla scacchiera planetaria derivi da uno starnuto alla Casa Bianca. Ma a mandare in soffitta il woke (letteralmente il «risveglio» da un presunto letargo nei confronti delle ingiustizie sociali) con l’ossessione delle disuguaglianze, l’esaltazione dei desideri Lgbtq+, la fobia per ogni tradizione è stato il pubblico, il consumatore, l’ordinary people poco incline agli indottrinamenti. Nessun moto di piazza, semplicemente la gente non ha comprato, ha voltato le spalle a diktat culturali inventati da un’élite progressista con la pretesa di evangelizzare il mondo. Spiega Robby Starbuck, guru social di Donald Trump: «I clienti hanno capito una cosa molto importante, i loro portafogli sono un’arma».

A stilare la «Spoon River» della cultura woke è uno dei giornali che più l’hanno innervata con editoriali rosa confetto, l’Economist. Ecco l’elenco di chi ha preso le distanze: Bud Light e Nike (crollo delle vendite per campagne con star transgender); Disney (flop dei film iper inclusivi); Levi Strauss (fallimento dei jeans unisex); Starbucks dopo l’idea di pagare le operazioni di cambio di sesso dei dipendenti; Gillette (otto miliardi persi con la campagna contro il maschio). Anche la Coca-Cola, da sempre democrat, paga una comunicazione incentrata sulla necessità di «ridurre il comportamento bianco». Oggi nessuno festeggia se vince il premio «impresa inclusiva dell’anno», anzi c’è il rischio di una reazione alla Fantozzi con fuga sui tetti per evitare la medaglia. 

È cominciato il riflusso, come negli anni Ottanta dopo la contestazione generale. E casa, famiglia, lavoro, divertimento hanno ripreso il loro posto nella graduatoria delle priorità. Anche la lingua si riposiziona dopo gli asterischi, gli schwa, certi deliri anglofili radical come l’abuso di «inappropriato» invece di inadeguato per scimmiottare Melinda Gates, o l’impronunciabile «intersezionale».

Sempre l’Economist ammette: «La percentuale di chi crede che si possa avere un sesso diverso da quello della nascita è diminuita costantemente dal 2017». Bentornati sulla Terra. Otto anni di ipnosi collettiva, poi le aziende sono state svegliate dai fatturati in picchiata. Le diversità contano fino a quando fanno guadagnare, ora negli Stati Uniti è una corsa a rimangiarsi la Dei. Il programma governativo «Diversity, Equity and Inclusion» era il simbolo dell’appartenenza al club woke guidato dall’ex candidata democratica alla presidenza Usa Kamala Harris, adesso è una pallottola di carta dentro il cestino.

Trump ha chiuso gli uffici federali sottolineando che «questo tipo di programmi è basato sulla discriminazione» e ha rilanciato la parola «merito». Risultato: si sono allineati (quasi) tutti, a cominciare dai Big tech. Google, Meta, Amazon sono stati i primi a scappare dal Dei «per non farsi trovare con le impronte digitali sul cadavere» (copyright del vicepresidente americano J.D. Vance). Seguiti a ruota da Hollywood con Disney e Paramount. Quest’ultima ha annunciando che «non utilizzerà più obiettivi di diversità nelle assunzioni» e ha iniziato a rimuovere asterischi e schwa dal suo sito web. In una singolare corsa a riposizionarsi, il network HBO (quindi Warner Bros) in vista del lancio del nuovo Harry Potter, ha difeso J.K. Rowling dopo anni di censure. La scrittrice è passata da «impresentabile transfobica» a icona pop. La stessa major ritiene che «il suo contributo è inestimabile e lei ha il diritto di esprimere in libertà ciò che pensa». Miracoli della narrazione.

Per tornare nel recinto della tradizione è bastato sostituire la parola «diversità» con «valore». Dai grandi marchi motoristici (Toyota, Ford, Harley Davidson, i re dei trattori John Deere) a quelli alimentari (McDonalds, Walmart, Pepsi, Coors, Jack Daniels) fino ai colossi farmaceutici (Pfizer, Bristol Myers Squibb, Johnson & Johnson, Biogen e Alnylam Pharmaceuticals). Nel settore, la restaurazione ha preso piede anche in Europa: le svizzere Roche e Novartis stanno cambiando politica. Grandi manovre pure a Wall Street. Goldman Sachs ha annunciato che non richiederà più «una selezione di candidati o intervistatori basata su criteri di inclusione». Il record di velocità nell’invertire la rotta appartiene a Citygroup, che a dicembre ha dichiarato: «I programmi Dei fanno parte del nostro dna». Ma a gennaio li ha cancellati tutti. Anche Bank of America, Morgan Stanley, JPMorgan, Huntington e Wells Fargo hanno tagliato gli obiettivi etici.

Nei consigli d’amministrazione è cambiato il vento e resistere non è facile. Ci provano i danesi di Novo Nordisk, gli anglosvedesi di AstraZeneca. Hanno confermato i programmi Dei anche Apple, la catena di supermercati Costco, Coca-Cola (in silenzio). Il colosso dei cosmetici Lush ha fatto sapere dalle barricate: «Non abbiamo intenzione di fare marcia indietro su nulla» e ha lanciato una linea bagno transgender. Resistono, per ora, anche la Nfl di football americano, la Delta Airlines (la Boeing invece ha salutato il club). Con un obiettivo a medio termine: cavalcare un eventuale contro-ribaltone. Un rischio che perfino il New York Times, cavaliere bianco del woke, non intende correre: gli editoriali sul ritorno a Cold Mountain si stanno moltiplicando.   

Una storia emblematica è quella dei gelati Ben&Jerrys, di proprietà di Unilever. L’ad ultraprogressista Ben Stever ha tuonato: «Le aziende che si inchinano all’attuale clima politico diventeranno sempre meno competitive sul mercato. E alla fine saranno giudicate come se fossero state dalla parte sbagliata della storia». Così ha continuato a chiedere il disarmo della polizia, a protestare contro la guerra a Gaza. Alla fine la casa madre lo ha accusato di attivismo sociale e sta ingaggiando un braccio di ferro giudiziario per costringerlo a uscire dalla sede con l’immancabile scatolone.   

I fatturati e il vento contrario non potevano lasciare indifferente il mondo della moda. Basta eccessi, basta maschietti in gonna e sandali col tacco, basta pubblicità con modelle oversize. In passerella tornano la femminilità, i sex symbol di Victoria’s Secret, la sobrietà che i geni del marketing hanno già battezzato «Quiet Luxury», lusso discreto. Nessuno vuole finire nel burrone, meglio riaprire gli archivi e copiare gli stili anni Cinquanta e sessanta facendo finta che i Settanta degli hippie non siano mai esistiti. Si è cominciato a notarlo al festival di Sanremo, alla notte degli Oscar, ad Eurovision: via i maranza, dentro i new gentlemen.

Il riflusso ha dato uno scossone anche alla politica, il woke ha fatto perdere più di una tornata elettorale alle sinistre che se lo intestavano. Commenta il sociologo Luca Ricolfi nel suo saggio Follemente corretto: «La pacchia woke è finita, come del resto si poteva capire già da un bel po’ osservando fenomeni come la rivolta di una parte del femminismo contro le rivendicazioni Lgbtq+. Un conto è invitare a dire colf anziché donna di servizio, un altro è punire chi non si attiene ai dettami della neolingua, licenziare chi ha idee ritenute sbagliate, indottrinare i bambini nelle scuole, far gareggiare i maschi biologici nelle competizioni femminili, penalizzare chi è bianco nei concorsi universitari, incoraggiare i cambi di genere precoci, chiudere il conto corrente a chi ha idee controverse. È successo anche questo, negli Stati Uniti».
Un segnale fortissimo del declino dell’ideologia transgender arriva dallo sport, dove il Cio ha rimesso in discussione la partecipazione alle gare femminili degli atleti del cosiddetto terzo sesso. Alle Olimpiadi di Parigi aveva fatto scalpore il discusso trionfo di Imane Khelif nella boxe, quando il woke ancora dettava legge.

Si è notata un’altra novità: prima delle partite delle nazionali di calcio non s’inginocchia più nessuno, neppure Myrta Merlino. Risolto il problema del razzismo? Certo che no. Ma la genuflessione non era una risposta sensata. Era una pagliacciata.

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