Il celebre scrittore americano, considerato il padre della Beat Generation, era in realtà uno spirito aristocratico, assai più complesso dell’icona della sinistra in cui è stato trasformato. Così condannava l’idea di uno Stato comunista repressivo e burocratizzato. E nei suoi romanzi allucinati affermava, più moderno che mai, l’insofferenza per ogni forma di potere.
Coincidenze significative, a dimostrazione che non tutto, nel tortuoso fiume della Storia, dipende dal Caso. Due uomini, lo stesso nome, sorti opposte. William Seward Burroughs (1855-1898) era un inventore. Anzi, qualcosa di più: era uno degli spiriti pionieri che hanno contribuito all’avanzare potente della Tecnica, alla meccanizzazione della vita privata di miliardi di persone sul pianeta Terra. Inventò una delle prime addizionatrici: se per anni e anni abbiamo utilizzato calcolatrici con lo scontrino è anche merito suo. Creò una azienda che commercializzava macchinette in milioni di esemplari parecchi decenni prima che il personal computer fosse inventato. Il fuoco di Prometeo illuminava il suo cammino.
Poi c’è William Seward Burroughs II (1914-1997), il più famoso dei due, nipote del primo. È considerato il padre della Beat generation, uno degli scrittori americani più influenti di sempre, un’icona culturale prima ancora di un narratore. Anche lui riuscì a trarre qualche beneficio dalle scoperte del nonno. La sua famiglia lo mantenne per tutta la vita, garantendogli costanti iniezioni di liquidità mentre lui girava il mondo, diventava dipendente dalle droghe più diverse e sfornava libri rivoluzionari. Forse lo pagarono anche per toglierselo di torno: omosessuale dichiarato, non era la migliore pubblicità per una famiglia borghese statunitense del Novecento inoltrato.
Se il nonno aveva messo benzina nel motore della Tecnica, il nipote ne aveva compreso gli aspetti oscuri, le potenzialità destabilizzanti. Seguendo l’istinto e gli incubi – in parte provocati dalle sostanze – Bill Burroughs aveva intuito quanto la tecnologia, come un virus, avrebbe infettato l’umanità, e cercò di opporsi con forza alla società del controllo, alla meccanizzazione dell’esistenza. Lo fece, certo, in modo confuso, caotico, cercando senza in fondo trovare mai. Educato a Harvard dove studiò letteratura e antropologia, si trasformò presto in una sorta di psiconauta.
Girò il Messico in cerca dello yage, la droga sciamanica che s’annidava nel folto della foresta. Senza metodo e stancandosi presto s’interessò del buddhismo e dello zen. E in questo modo ispirò un’intera generazione di autori, poeti, artisti e cineasti senza mai farne parte. Basta leggere Il mio passato è un fiume malvagio, il bellissimo volume edito da Adelphi che raccoglie le lettere di Burroughs inviate ad amici e conoscenti fra il 1946 e il 1973, per rendersi conto di quanto fosse diverso dai giovani che lo circondavano.
Apparteneva a una nidiata differente, era una sorta di dandy, un aristocratico molto – forse troppo – distante dagli hippy e dai militanti politici che presto iniziarono a sciamargli intorno. Approfondire questa frattura, oggi, risulta particolarmente interessante. C’è chi, come il saggista Raffaele Alberto Ventura, sostiene che la sinistra non dovrebbe più «considerarlo un mito», cosa che ha fatto dagli anni Sessanta a oggi. Peggio: a suo dire Burroughs potrebbe meritare una ripassatina in stile «cancel culture». «Per fare di William Burroughs un mito della controcultura si è minimizzato il brutale omicidio di sua moglie» dice Ventura.
La storia è nota: Bill si mise in testa di fare «il gioco di Guglielmo Tell» e la faccenda finì tragicamente, con una delle sue mogli fulminata da un colpo d’arma da fuoco. Questi non indifferenti particolari della biografia di Burroughs sono stati a lungo trascurati dalla sinistra che ammirava soprattutto il consumatore di droghe, che voleva vedere nello scrittore raffinato e di ricerca soltanto una checca anarcoide sfruttabile nella «lotta per i diritti». Ma, sfogliandone la corrispondenza, ci si rende conto che Burroughs non era nulla di tutto ciò. O, comunque, non era certo un attivista per i diritti dei gay. Semmai un ultralibertario. In materia di droghe, come no, ma anche sui temi economici.
Il 15 maggio del 1952 scriveva ad Allen Ginsberg (che molto amò e con cui intrattenne fitti scambi) righe piuttosto eloquenti. Negli Usa, spiegava, «puntano a incarcerare tutti gli indesiderabili, ossia chiunque non funzioni come parte intercambiabile nella loro impostazione Sociale Economica antiumana. La burocrazia repressiva è una cospirazione su vasta scala contro la Vita». Nel 1950, sempre a Ginsberg, aveva indirizzato un altro sfogo: «Lo Stato Assistenziale è sulla buona strada per diventare uno Stato Comunista, e questo significa uno stato di polizia burocratizzato».
Ma come, Bill Burroughs anticomunista? Lui che se ne stava sempre appiccicato a quei fricchettoni dei Beat, lui che veniva idolatrato dagli svalvolati in marcia contro il governo americano? Certo. Ecco cosa scriveva, il primo gennaio del 1950, a un altro destrorso come Jack Kerouac: «Non so se vorrò mai tornare negli Usa. Temo che stiano andando verso il socialismo, il che significa, ovviamente, sempre più interferenze negli affari di ogni singolo cittadino. Cos’è mai successo al glorioso retaggio lasciatoci dai pionieri, che consentiva a ognuno di farsi gli affari propri? Il pioniere ormai si è ridotto a un burocrate disgraziato e liberal che s’intromette dappertutto».
In quella lettera ne aveva anche per Ginsberg: «Allen è stato completamente traviato da quegli psichiatri liberal. Parla di diventare un segretario di sindacato! Gli ho scritto cosa penso dei segretari di sindacato, dei sindacati e dei liberal […]. Allen si sta schierando con un elemento cancerogeno che soffocherà ogni residuo di vita libera negli Usa. Hai notato come qualunque pezzo di legislazione oppressiva e ingerente (…) venga sempre sostenuta a gran voce dalla stampa liberal? La parola liberal ormai sta per la tirannia più esecrabile, una tirannia piagnucolosa e ipocrita formata da burocrati, assistenti sociali, psichiatri e rappresentanti sindacali. Il mondo di 1984 è lontano meno di trent’anni».
È in virtù di uscite simili che Bill non può piacere alla sinistra odierna, liberal fino al midollo. Ma è sbagliato a ogni livello farne un maestro, o un riferimento politico. Semmai, oggi, dobbiamo essere in grado di cogliere gli spunti che ha fornito nel suo caotico libertarismo. Dobbiamo riuscire a leggere i suoi romanzi per quello che sono: distopie, storie anche politiche che ci informano sul mondo che abbiamo costruito. E che in effetti è divenuto un incubo burocratico, un delirio piagnucoloso e liberticida, dominato da meccanismi di controllo che soffocano la libertà a vari livelli.
Burroughs, quella libertà, l’ha sempre cercata. Aveva intuito la direzione da seguire: quella dello spirito e non quella delle macchine. Forse ha seguito le stelle sbagliate, questo sì. Ma il futuro che aveva scorto nei suoi viaggi mentali e lisergici corrisponde in larga parte al nostro presente. Scriveva così: «Denaro donne potere, cos’altro c’è in questo mondo?». A questo sistema non sapeva bene come opporsi, se non sfruttando il suo privilegio di nascita e condizione. Ma aveva capito che qualcosa non andava. E, pur tra mille errori, non aveva tutti i torti.