Alla faccia degli autorevoli critici che li avevano definiti «meteore», i quattro ventenni romani sono la prima e unica band italiana a sfondare in tutto il mondo. Piacciono perché sanno l’inglese, sono glam (li veste Gucci), sono trasgressivi ed esprimono in scena e sui social una sessualità fluida che li ha fatti diventare icone erotiche. Specialmente: perché sanno suonare e hanno reinventato un genere.
No, a indebolire lo status di fenomeno mainstream globale non c’è riuscito nemmeno Pitchfork, il sito di critica musicale che si autodefinisce «The most trusted voice in music». Quel «2» in bella vista affibbiato all’ultimo album dei Måneskin, Rush! definito «terribile oltre ogni immaginazione» non ha spostato di una virgola la traiettoria del destino. Al massimo, ha provocato qualche sussulto di piacere ai tanti connazionali, artisti, critici musicali e invidiosi a tempo pieno, che proprio non ce la fanno a vedere quei quattro rocker italiani, che fino al 2017 suonavano per strada in Via del Corso a Roma, conquistare folle oceaniche in Europa, negli Stati Uniti, in Australia e in Sudamerica. Figurarsi quando ad applaudirli è il pubblico di Glastonbury e Coachella, i due festival più prestigiosi del mondo.
Si può comprendere la frustrazione di chi pur avendo avuto qualche riscontro in Italia, non è mai stato preso in considerazione oltre il confine di Lugano, ma quando le canzoni in italiano e in inglese di una band di Roma vengono intonate negli stadi e nei Palasport di quattro continenti bisognerebbe solo prenderne atto e magari esserne un po’ orgogliosi. Quanto a Pitchfork, non siamo nel 1973, e nessuna cattiva recensione può interferire con l’onda mainstream che accompagna ogni mossa del gruppo musicale romano.
I Måneskin, è bene ribadirlo, sono la band italiana più famosa di sempre nel mondo: non hanno rivali e non ne avranno per un bel po’ di tempo. Altro che meteore. Non si diventa idoli degli «under 30» di tutto il pianeta per caso o per fortuna. Certo, l’allineamento dei pianeti serve, ma per non sbagliare una mossa, come hanno fatto e stanno facendo loro, ci vuole altro, molto altro.
Innanzitutto è indispensabile aderire perfettamente al gusto e allo spirito dei tempi, e in questo i Måneskin, nonostante i poco più di vent’anni, sono professionisti impeccabili: glamour al punto giusto (li veste Gucci), trasgressivi, irriverenti e provocatori senza indulgere minimamente all’autodistruzione, e con una presenza social costante e debordante.
Non solo: parlano l’inglese in scioltezza come veri cittadini del mondo, sono ostentatamente sexy sul palcoscenico ed esprimono in scena e sui social una sessualità fluida che li ha fatti diventare icone erotiche al di là della musica. Lo ha detto a chiare lettere anche Milo Manara, maestro della sensualità a fumetti: «Victoria, come gli altri Måneskin, incarna la fluidità e la libertà erotica del nostro tempo».
Si vestono, si travestono e si svestono usando il linguaggio del corpo che la loro età gli consente, come faceva Elvis che dimenava il bacino mimando un amplesso o come hanno fatto i Red Hot Chili Peppers ritratti nudi con un calzino sui genitali per la copertina del loro Abbey Road, o ancora James Brown, mentre interpretava selvaggiamente Get Up (I Feel Like Being a) Sex Machine facendo tremare le pareti dell’Apollo Theater di Harlem, e Madonna, vestita da sexy sposa, che ha simulato in diretta mondiale su Mtv un orgasmo mentre cantava Like a Virgin.
Detto questo, la ragione fondamentale per cui i Måneskin sono quello che sono è racchiusa nel concetto di fare la differenza, di non omologarsi a una scena musicale appiattita sulle sonorità rap/trap e reggaeton.
Suonare rock a vent’anni, riportando in auge un genere che negli ultimi due decenni è diventato un fenomeno vintage tenuto in vita da straordinari «dinosauri» settantenni, è stato il primo atto controcorrente di Damiano, Victoria, Ethan e Thomas. Seguito da un colpo di genio: andare a Sanremo e vincere con un pezzo a tutto rock, Zitti e buoni, e con una performance di tre minuti tutta sesso, adrenalina, ormoni e sudore.
Uno choc culturale e sonoro, che ha fatto sembrare quasi tutti i partecipanti di quell’edizione del Festival e di quella successiva delle statue in posa.
La funzione del rock, in fondo, è sempre stata questa: sparigliare le carte e rompere gli schemi. È così, fatte le debite proporzioni, dal giorno in cui Bob Dylan attaccò una chitarra elettrica all’amplificatore nel bel mezzo di un festival folk, acustico, a Newport all’inizio degli anni Sessanta. Un semplice gesto, e nella musica moderna nulla fu più come prima.
Era un altro tempo e il rock si apprestava a vivere un’età dell’oro irripetibile quanto eccezionale. Per questo fanno sorridere le critiche di chi scrive che i Måneskin non sono vero rock e la loro musica è derivativa, ma senza lo spessore dei grandi del passato.
Sai che scoperta… Sono ventenni che interpretano alla loro maniera un genere musicale glorioso e si sono fatti produrre l’ultimo disco dallo svedese Max Martin (Britney Spears, Backstreet Boys, Bon Jovi, Katy Perry).
È quindi assolutamente normale che i loro dischi non entusiasmino quelli nati nel 1965 o nel 1970, ma piuttosto i figli. Ogni era del suono è popolata da grandissimi artisti e da artisti mediocri che mandano in visibilio una generazione pur essendo figuranti di passaggio. Non così per i Måneskin.
La musica, nella maggior parte dei casi, separa le generazioni, mette una distanza tra il mondo dei figli e quello dei padri. Solo che a volte i padri si dimenticano delle facce inorridite dei loro genitori quando appendevano in cameretta i poster di Jim Morrison a torso nudo, dei Sex Pistols brutti sporchi e cattivi o di Frank Zappa con i calzettoni di lana a strisce colorate e gli slip leopardati… Altro che Damiano con le maglie a rete e i tacchi a spillo…