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Roby Facchinetti: «Parsifal, un’opera solista che sfida la musica di oggi»

Roby Facchinetti: «Parsifal, un’opera solista che sfida la musica di oggi»

Dai Pooh al teatro: la carriera, i sogni e la rivoluzione musicale di Parsifal

Camillo Facchinetti, detto Roby, aveva grandi sogni da bambino. E due strumenti per iniziare a realizzarli: il coro della parrocchia e le lezioni di fisarmonica del maestro Luigi Ravasio. Immerso tra i prati e gli alberi della Valle di Astino, a un passo dalla Città Alta di Bergamo, non poteva immaginare che da grande avrebbe scritto la storia della musica italiana italiana con i Pooh e che un giorno, a ottant’anni, avrebbe pubblicato, da solista, la sua prima opera di rock progressivo e sinfonico: Parsifal. 

Come il titolo dello storico brano dei Pooh del 1973: «C’è ovviamente un filo rosso che collega quel pezzo di dieci minuti all’opera di oggi, un sogno diventato realtà grazie a cinque anni di duro lavoro. Tanto è servito per raccontare, mettere in musica e arrangiare le gesta del Cavaliere wagneriano senza macchia. Un album così, nella discografia mordi e fuggi di oggi, è semplicemente una pazzia, un gesto rivoluzionario, ma d’altra parte il mio motto è: se ti innamori follemente di un progetto, non chiedere mai quanto costa, realizzalo. Adesso, il prossimo sogno è portare Parsifal sul palco» racconta ricordando i due amici, che oggi non ci sono più, Valerio Negrini (autore dei testi dei Pooh) e Stefano D’Orazio (il batterista del gruppo). «Il loro apporto a Parsifal è stato fondamentale, ci hanno messo l’anima… Negli ultimi tempi, consapevole dei suoi problemi di salute, telefonavo a Stefano tutti i giorni. In un maledetto pomeriggio del novembre 2020, mi dice di aver appena scoperto di essere positivo. Rimango atterrito e lui, percependo la mia preoccupazione, mi dice “ Roby, stai tranquillo, a parte il Covid va tutto bene”. Andava invece tutto male: viene ricoverato d’urgenza e intubato. Poche ore dopo se ne va… Ecco, il lavoro straordinario che ha fatto sui testi  di Parsifal è il suo testamento artistico» spiega. 

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È un testimone della storia Roby Facchinetti, una storia fatta di stadi e palasport sold out e, per una sera anche di paura, lacrimogeni e fughe rocambolesche: «Nel 1971 facevamo parte del Cantagiro (un Festivalbar ante litteram; ndr). Il 5 luglio a chiudere la serata al Vigorelli di Milano vengono invitati i Led Zeppelin. Un’occasione d’oro per i contestatori e gli autoriduttori politicizzati che pretendevano la musica gratis. Appena la band inglese inizia a suonare, è il caos: in migliaia premono sui cancelli per sfondare lanciando pietre e oggetti vari verso i poliziotti che rispondono con i lacrimogeni. Dentro il Vigorelli è paura vera: non si respira più, gli occhi lacrimano, volano sassi e manganellate, i Led Zeppelin fuggono allibiti nei camerini dopo tre brani, tutti corrono disperatamente verso le uscite schivando cariche della polizie e oggetti volanti. Io e Dodi (Battaglia, il chitarrista dei Pooh; ndr) riusciamo a scappare e corriamo come pazzi per minuti e minuti col cuore in gola finché vediamo lungo la strada un garage aperto. Ci fiondiamo dentro, chiudiamo la saracinesca e aspettiamo la fine della “guerra”. Siamo usciti alle quattro del mattino» ricorda. 

Oltre tremila concerti in Italia e nel mondo, dodicimila ore, una più una meno, sul palco con i Pooh, milioni di spettatori, migliaia di chilometri con ogni mezzo, sale d’incisione, avventure e incontri, alcuni casuali, destinati a rimanere per sempre: «Pochi mesi dopo la morte di John Lennon, andiamo in pellegrinaggio al Dakota Building di New York dove era stato ucciso a colpi di pistola. Siamo lì in silenzio, commossi, nel punto esatto dove venne colpito, e all’improvviso dal portone esce Yoko Ono. “Siamo una band italiana, possiamo fare una fotografia con te?». «Certamente» dice con una gentilezza straordinaria, «ma non qui». Inizia a camminare e ci porta al Central Park in un punto che Lennon aveva ribattezzato Strawberry Field: “Ecco, scattiamola ora. Io e John venivamo sempre qui, sotto quest’albero, quando volevamo essere felici”. Indimenticabile». 

Adesso che Parsifal è uscito come un album suo nome interamente realizzato da lui, con un altro ensemble di musicisti, senza lo storico marchio che lo ha accompagnato per tutta la vita, è il tempo di qualche considerazione: «Sono certo di aver trascorso più ore sul palcoscenico con i Pooh che con la mia famiglia. Ho cinque figli e forse ne ho accompagnato uno solo al primo giorno di scuola. Non ero a casa la prima volta che hanno detto mamma e papà. Mi sono perso lauree e compleanni, però ho assistito alla nascita di tutti perché quello è l’attimo che non si può perdere» sottolinea. 

«I Pooh sono stati un’esperienza totalizzante, fatta di musica ma anche di riunioni su riunioni con discussioni anche accese e divergenze. Ma ogni volta era come se sopra le nostre teste lampeggiasse il logo dei Pooh: qualunque discussione era un granello di sabbia, polvere rispetto all’importanza della nostra storia». 

E poi i fan, un mare di volti e storie disseminati lungo sessant’anni di carriera: «Uno su tutti: Yogi, un superfan bulgaro. Eravamo a Sofia alla fine degli anni Settanta, voleva incontrarci, ma sapeva che se l’avessero beccato sarebbe stato arrestato e spedito a raccogliere barbabietole in qualche campo di lavoro. Ci fece avere il suo indirizzo con un giro vorticoso di bigliettini e io e Stefano (D’Orazio; ndr) lo raggiungemmo in taxi. Sognava l’Italia, noi gli dicemmo che non era un buon momento per il nostro Paese: le stragi, i rapimenti, le Brigate Rosse, la gente ammazzata per strada. “Lo so” disse lui, “ma non dimenticate che voi siete liberi di andare dove vi pare, io no, non posso muovermi da qui”. Ci venne da piangere».

Ancora lacrime in Lapponia, ma per un altro motivo: convinto dal figlio Francesco a partecipare al format televisivo 50 modi per far fuori papà, la voce dei Pooh si ritrova davanti alla renna che avrebbe dovuto trascinarlo nella neve sugli sci: «Cerco di accarezzarla, ma è incazzatissima perché l’avevano legata ad un albero, così in un millesimo di secondo alza le zampe e libera un uno-due micidiale sulla mia fronte con gli zoccoli. Se non avessi avuto un cappello di pelo con una visiera alta dieci centimetri, sarei morto lì con il cranio scoperchiato»

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