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Furti cinesi nell’hi-tech

Furti cinesi nell’hi-tech

Nella sua strategia, la Repubblica popolare punta ad appropriarsi di ricerche e di nuovi prodotti di alta tecnologia in tutto il mondo, Italia compresa. Il modo è indiretto ed efficace: attraverso migliaia di studi scientifici e collaborazioni a livello universitario.


La Cina è vicina: decisamente troppo. La National security agency, il servizio segreto statunitense che si occupa di difesa dalle minacce straniere, ha appena lanciato un serio allarme alle industrie americane. Secondo la Nsa, le centrali del cyber-spionaggio di Pechino sono sempre più attive nell’hi-tech. L’agenzia ha messo in guardia le imprese soprattutto da un gruppo di hacker cinesi denominato «Volt Typhoon», che conduce silenziosi attacchi, ormai praticamente quotidiani, e continua a rubare informazioni nell’alta tecnologia. L’attacco cinese alla ricerca tecnologica occidentale più avanzata è concentrico, e strategico. Di recente s’è cominciato a sospettare che furti d’informazioni sensibili possano avvenire perfino attraverso le immense gru che negli ultimi anni, facendo leva sul prezzo, la Repubblica popolare piazza a centinaia nei porti commerciali – e militari – dell’America e del mondo: pochi mesi fa è stato lanciato l’allarme anche su quegli impianti, che si ritiene siano stati dotati di sofisticati dispositivi spia, in grado di trasmettere le informazioni che raccolgono direttamente a Pechino.

Il governo di Xi Jinping ha respinto l’ipotesi, accusando l’intelligence americana di «paranoia», eppure due anni fa si era appurato che le tantissime telecamere di sicurezza biometriche e a lettura facciale che le case cinesi hanno venduto in Occidente – in Italia sono state acquistate a migliaia per essere collocate in uffici pubblici, tribunali e addirittura all’ingresso di palazzo Chigi – possiedono collegamenti informatici in grado di trasmettere alle centrali di Pechino i dati che raccolgono: possono quindi essere considerate parte integrante dell’occhiuto sistema di controllo di massa creato in Cina a partire dal 2016-17, e un utile mezzo per la repressione del dissenso all’estero.

Quel che più spaventa l’intelligence occidentale, al momento, è però il «grande furto cinese» nell’hi-tech, il mezzo più veloce con cui Pechino punta a conquistare la preminenza tecnologica globale. Vent’anni fa la Cina copiava e riproduceva molti dei migliori prodotti delle industrie straniere, dalla meccanica di precisione alle scarpe. Oggi la competizione, se possibile, è ancora più dura. La Repubblica popolare è affamata soprattutto dell’alta e dell’altissima tecnologia americana ed europea. Insieme con lo spionaggio, il sistema più facile per acquisire informazioni senza fare fatica e perdere tempo è infilare (legalmente) un piede nelle ricerche altrui. Le agenzie americane ed europee segnalano con allarme crescente le tante, troppe collaborazioni accademiche esistenti tra Cina e Europa, attive proprio e soprattutto nell’alta e nell’altissima tecnologia. I cinesi sono interessati a quanto di più strategico si studia nel mondo: veicoli a guida automatica e droni, intelligenza artificiale, robotica e aerospaziale. Con un’attenzione particolare a tutto ciò che può avere un impatto innovativo in campo militare.

Un’organizzazione non governativa con sede in Olanda, denominata Follow the money, ha pubblicato un’analisi intitolata «China science investigation» dal quale emerge che negli ultimi vent’anni le università cinesi ed europee hanno portato a termine oltre 350 mila studi scientifici congiunti, ma almeno 2.994 sono stati condotti da scienziati e istituzioni che dietro avevano le forze armate di Pechino. La quota è molto approssimata per difetto, perché in Cina non è mai chiaro che cosa sia militare e cosa non lo sia. Secondo «China science investigation», la maggior parte degli studi congiunti ai quali abbiano preso parte istituzioni militari della Cina riguarda le università di Regno Unito, Olanda, Germania e Svezia. Quelle italiane sarebbero al settimo posto nella classifica generale, con 939 collaborazioni universitarie in totale avviate tra il 2007 e il 2022, ma anche con 123 studi congiunti realizzati con enti in qualche modo collegati all’Esercito popolare di liberazione. I progetti di ricerca nei quali si sono infiltrati partner cinesi riguardano sempre tecnologie avanzate, se non sofisticate: si va da nuovi algoritmi che rendono possibile identificare una persona da come batte i tasti su una tastiera, alle nuove frontiere nel riconoscimento facciale, fino a futuribili sistemi di guida remota per veicoli sottomarini super-veloci.

Antonio Teti, docente all’Università di Chieti e tra i massimi esperti italiani di cyber-security (all’inizio del 2024 uscirà per Rubattino il suo ultimo saggio, China Intelligence: tecniche, strumenti e metodologie di spionaggio e controspionaggio della Repubblica popolare cinese) sottolinea che dal 2017 il governo di Pechino si è dotato di una rete di spionaggio unica al mondo: «Nel luglio di quell’anno» dice Teti «il Congresso del Popolo ha approvato una legge che costringe ogni azienda e ogni ente cinesi di partecipare alla raccolta d’informazioni utili per gli interessi nazionali». Lo studioso aggiunge che la norma «impone a tutti, dalle grandi imprese cinesi ai singoli cittadini, in patria come all’estero, l’obbligo di collaborare allo sforzo collettivo d’intelligence. Sono previsti anche incentivi economici per chi recuperi materiale particolarmente importante, e perfino ricompense per la sua famiglia».

Criminalizzare i cittadini cinesi sarebbe sbagliato, e vederli tutti trasformati in spie è sicuramente eccessivo. Eppure in Italia si stima ne risiedano circa 300 mila. E nei loro confronti la legge del 2017 parla chiaro: li legittima allo spionaggio collettivo. L’Italia ha qualche strumento per difendersi: lo scorso giugno il governo Meloni ha impedito alla cinese Sinochem, azionista al 37 per cento di Pirelli, d’impadronirsi di una nuovissima tecnologia basata su sensori che permettono agli pneumatici di comunicare con i sistemi di bordo del veicolo. Così l’azienda è stata dotata di un «nulla osta di sicurezza industriale strategico» che stabilisce limiti precisi all’accessibilità delle informazioni per l’azionista cinese. Si tappa un buco, ma intanto se ne aprono altri. Anche Teti osserva con preoccupazione gli accordi tra le università della Repubblica popolare e quelle italiane: «I docenti e gli studenti cinesi che accedono ai dottorati di ricerca quasi sempre entrano in contatto con le migliori strutture scientifiche della nostra industria più avanzata».

Negli Stati Uniti, 35 università sono stati coinvolte in casi di spionaggio cinese su ricerche utili in campo militare. Lo scorso luglio il Comitato britannico per l’intelligence e la sicurezza ha denunciato che tra i 140 mila studenti-ricercatori cinesi presenti negli atenei inglesi, sono molti quelli che (quotidianamente) copiano e trasmettono in patria le informazioni raccolte sui settori tecnologici di punta. Gli allarmi suonano, insomma. Qualcuno fermerà il furto?

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