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Come inquina il lavoro digitale

Come inquina il lavoro digitale

Nonostante spostamenti azzerati e uffici vuoti, la crescita esponenziale dello smart working ha un prezzo. La rete che lo supporta consuma enormi quantità di energia, ricavata soprattutto da fonti fossili. È possibile un equilibrio tra attività produttive e sostenibilità ambientale?


Videocall al posto di riunioni «in presenza». L’email diventata alternativa stabile all’incontro vis-à-vis. Il lavoro in remoto come consuetudine e non come evento eccezionale. Secondo l’Osservatorio smart working della School of management del Politecnico di Milano, nell’ottobre 2019 erano 570.000 gli smart worker italiani, in crescita del 20% rispetto all’anno precedente. Il blocco degli spostamenti provocato dal Covid-19 ne ha fatto aumentare il numero in modo straordinario: il ministero del Lavoro a inizio maggio – sono gli ultimi dati disponibili relativi al solo settore privato – ne contava 1,8 milioni. Un’altra stima della Cgil-Fondazione Di Vittorio calcolava in 8 milioni coloro che hanno lavorato in remoto durante il lockdown.

E ancora: un’indagine condotta ad aprile da Federmanager ha evidenziato che l’80% degli oltre 10.000 manager intervistati sia stato in modalità totale o parziale di smart working – con il 58,9% che operava solo da casa. Ecco perché alcune aziende stanno valutando il lavoro agile come un’alternativa economicamente interessante, e magari definitiva, anche quando tornare in ufficio sarà privo di rischi.

Smart working e restrizioni negli spostamenti professionali hanno avuto effetti positivi anche per l’ambiente. Un recente documento della rivista scientifica Nature registra che le emissioni globali giornaliere di CO² sono diminuite del 17% all’inizio di aprile 2020 rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Lo studio evidenzia anche come il trasporto di superficie rappresenti quasi la metà della riduzione delle emissioni durante il lockdown.

Alcuni vantaggi dunque ci sono stati, ma è solo un lato della medaglia. Un numero maggiore di persone in rete che comunica, lavora, fa la spesa o scarica film ha sostituito quella che è l’«impronta di carbonio» fisica con l’inquinamento digitale. Perché internet è una cosa meravigliosa, ma pure un’enorme fonte inquinante dato il suo bisogno di elettricità, derivata ancora principalmente da combustibili fossili.

Si stima, per esempio, che l’invio di una breve email comporti un’immissione in atmosfera di quattro grammi di CO². Dato che peggiora se l’email ha un allegato di grandi dimensioni: i grammi salgono a circa 50. La ricezione di un messaggio di spam – anche se non viene aperto – ha un impatto ambientale di 0,3 grammi di CO². E l’impronta di carbonio globale dello spamming ogni anno equivale ai gas serra pompati da 3,1 milioni di autovetture che consumano 7,6 miliardi di litri di benzina in 12 mesi. (fonte phys.org).

Panorama ha chiesto a Gary Cook, direttore delle campagne globali sul clima dell’organizzazione ambientale Stand.Earth, una stima di quanto sia aumentato l’inquinamento digitale in questo periodo di lavoro remoto. «Il traffico internet dall’inizio del lockdown sembra essere cresciuto tra il 30 e 50%. In che modo ciò si traduca in termini di emissioni dovrebbe essere esaminato valutando in quale Paese quali servizi hanno visto il maggiore aumento a seguito del lockdown, e qual è la fonte di elettricità su cui si basa l’infrastruttura della rete».

L’aumento del traffico sul web è esponenziale: il Cisco annual internet report prevede che entro il 2023 ci saranno 5,3 miliardi di utenti. Salirà di conseguenza anche l’impronta energetica alimentata dal consumo individuale. E maggiore sarà il numero di dati inviati, più grandi saranno le infrastrutture necessarie per spedirli. Ciò equivale a più energia, che viene prodotta soprattutto con petrolio o carbone, a meno che non derivi da fonti rinnovabili.

«Prima di consultare un sito web dovremmo chiederci se questo sia ospitato in un data center che utilizza combustibili fossili o elettricità rinnovabili» aggiunge Cook, che per Greenpeace ha guidato la campagna per una transizione delle aziende di Information techonology alle rinnovabili. «Nonostante l’assenza di una ciminiera sui nostri laptop e tablet, l’uso di piattaforme digitali ha un impatto ambientale significativo. L’azione individuale dovrebbe essere diretta verso la responsabilità collettiva nei confronti di grandi marchi globali come Netflix e Amazon, che sono in ritardo».

Facebook è stata la prima a porsi il problema, seguita da Apple nel 2012. Nel corso di dieci anni, la campagna «Click clean» di Greenpeace ha ottenuto che più di 30 marchi della nuova economia scegliessero un percorso verso le «rinnovabili» al 100%. Anche Microsoft, lo scorso gennaio, ha annunciato che entro il 2030 arriverà a emissioni zero e entro il 2050 rimuoverà dall’ambiente tutto il carbonio prodotto direttamente, o per consumo elettrico, dalla sua fondazione nel 1975. «È essenziale la pressione dei consumatori per indurre Facebook, Apple, Google e altre colossi del web a impegnarsi per abbandonare l’energia “sporca” come appunto quella prodotta dal carbone, molto diffusa per esempio in America» conclude Cook.

Ci sono Paesi che hanno deciso di costruire data center – ovvero il «motore» delle aziende tecnologiche – alimentati da energia «pulita»? «Nazioni come Norvegia, Svezia, Islanda e Costa Rica hanno fatto questa scelta, vista l’elevata percentuale di rinnovabili sulla loro rete nazionale. E i Paesi nordici possono anche beneficiare di un clima fresco, che aiuta a mantenere i costi di raffreddamento molto più bassi».

Poter calcolare le proprie emissioni di carbonio, e vederne l’impatto in tempo reale, potrebbe essere un forte incentivo per cambiare i comportamenti e diventare più consapevoli dell’inquinamento digitale. Come ridurre però le emissioni dei servizi digitali, smart working incluso? «Innanzitutto bisogna capire dove provochiamo le maggiori emissioni di carbonio, quindi rendere internet più efficiente utilizzando meno combustibili fossili, nonché essere più attenti nell’uso» dice Chris Adams, direttore della Green Web Foundation, che sviluppa metodologie per far funzionare internet esclusivamente con energia rinnovabile. «Abbiamo reso più semplice l’individuazione della fonte di energia con cui funziona. E messo a punto un sistema che verifica quanto ogni sito web utilizza fonti green. Il passo successivo è stato lo sviluppo delle Green web apps, per mostrare quanto sia “verde” un sito nel proprio browser, ogni volta che se ne visita uno o si fa una ricerca in rete. Finora gli utenti hanno eseguito quasi 2 miliardi di controlli con queste app».

Aggiunge Chris Adams: «Le aziende hanno un ruolo cruciale nel ridurre la nostra impronta digitale di carbonio e devono cercare modi più efficienti di lavorare, archiviare e condividere i dati. Se vogliamo continuare a costruire siti web, dovremo far sì che costruirli in modo sostenibile diventi la norma». Varie realtà produttive stanno valutando appunto come utilizzare il «lavoro agile», anche in tempi «non straordinari». Un esempio viene dall’esperienza di Intesa Sanpaolo, dove lo smart working è già adottato da anni. Di recente il gruppo bancario ha anche firmato un memorandum con Tim e Google Cloud per accelerare la digitalizzazione nelle imprese. Il progetto prevede la creazione di due Region Cloud Google a Torino e Milano, che useranno i data center di Tim e su cui Intesa Sanpaolo costruirà i propri servizi digitali. Entrambe le infrastrutture saranno «carbon neutral», con alti standard di efficienza energetica e con l’utilizzo prevalente di energia da fonte rinnovabile.

A livello globale, il ceo di Google Sundar Pichai ha dichiarato che il ritorno in ufficio sarà volontario sino alla fine dell’anno, incoraggiando i suoi dipendenti a lavorare da casa. Da quando, a marzo, Google ha reso disponibili le funzionalità avanzate di Meet, il suo utilizzo giornaliero è cresciuto di 30 volte, ospitando quotidianamente tre miliardi di minuti di riunioni. Solo nel mese di aprile ha registrato circa tre milioni di nuovi utenti al giorno. Contemporaneamente agli investimenti per il lavoro da remoto, nel 2019, per il terzo anno consecutivo, Google ha acquistato un quantitativo di energia rinnovabile pari alla totalità dei propri consumi. Il prossimo obiettivo è disporre di energia interamente «carbon free h24» per tutta la settimana, in tutte le sedi dei suoi enormi data center. Forse qualcosa sta davvero cambiando.

Si fa presto a dire smart working

Ma allora è vero che il capitalismo ha il dono di correggersi. Da oltre 20 anni, nei centri storici, spuntano sui muri scritte contro la «gentrificazione», termine cacofonico che indica il recupero dei quartieri buoni e l’estromissione delle classi a basso reddito che vi abitavano. Proteste, occupazioni, sgomberi, telecamere sabotate, fioriere ovunque, Banksy veri o presunti, metro quadro alle stelle. Potere ai commercianti e alla movida. Anzi no, potere ai residenti. E i poveri che ritornano in centro nel weekend dai quartieri ghetto, assetati di rivincita come i parigini di certe banlieu.

Centinaia, migliaia di comizi dedicati al tema delle famose periferie. Un dibattito intriso di ideologie, al termine del quale vince comunque lo sviluppatore immobiliare. Poi arriva il Covid-19 e anche in Italia prende il volo il telecommuting, il lavoro a distanza che qui si è deciso di chiamare smart working senza aver ancora ben chiaro per chi è davvero smart, e che però intanto ti risolve il problema della «gentrification» meglio di un raid di «squatters». Uffici svuotati e sbarrati, a Porta Garibaldi e Citylife, a Milano, come all’Eur, a Roma, e decine di negozi e ristoranti chiusi, bar che arrancano, parrucchieri e lavanderie improvvisamente nel posto sbagliato. Il telelavoro è il futuro, come la tecnologia, e mica lo si può fermare. Ma piaceranno ancora queste città ai turisti? E chi tira giù la serranda per sempre può riaprire in una zona residenziale?

Il telelavoro ha grandi pregi. Non spostarsi per andare alla vecchia scrivania riduce sensibilmente i livelli d’inquinamento e fa risparmiare denaro e tempo. In molti casi, spuntano anche un paio d’ore al giorno in più da dedicare alla famiglia, allo sport, al tempo libero. E si è più padroni delle proprie giornate, si possono fare piccoli lavoretti nelle pause, a cominciare da quelli di casa. Poi, certo, c’è il sospetto che con il telecommuting una donna perda anche quella minima sensazione di emancipazione che aveva con il lavoro esterno e finisca per raddoppiare la fatica.

Ma in Italia, non tutti sono impiegati in un ente pubblico, o in una grande azienda, o in una società di servizi che possono essere forniti dal salotto di casa. Migliaia di persone lavorano in esercizi pubblici che senza il fatturato di chi andava ogni giorno in ufficio sembrano condannati a morte. A fine 2018, c’erano 735.000 negozi e 333.000 tra bar, tavole calde e ristoranti che davano lavoro a un milione e 200.000 persone (dati Fipe-Confcommercio). Ai primi di giugno, tre settimane dopo la fine della quarantena, la Confesercenti ha avvertito il governo che sono 100.000 i ristoranti a rischio chiusura. E sempre la Fipe ha già registrato un calo medio dei fatturati del 53% e personale tornato al completo solo in un esercizio su tre. Il 46% degli esercenti lamenta la mancanza della clientela residente.

Il direttore generale della Fipe Roberto Calugi racconta a Panorama che «ci sono 50.000 attività a rischio e quando sarà finita la pandemia migliaia di italiani potrebbero doversi portare il pranzo da casa». Non solo bar, ma anche discoteche, catering, stabilimenti balneari sono al collasso e il sistema si regge sulla cassa integrazione. «La normalità non può essere questa» aggiunge Calugi. «Specialmente nella Pubblica amministrazione mi auguro che si torni in ufficio e che il centro storico di città come Roma, Milano e Firenze riprenda vita per davvero».

Già, la normalità è lo stato d’eccezione, che spesso serve a cambiarla in modo strutturale. Perfino chi vende vestiti reclama normalità e guarda con preoccupazione a un altro tipo di moda, quella del lavoro da casa. A fine giugno, il 76% dei negozi di abbigliamento denuncia un calo delle vendite rispetto ai livelli pre Covid-19. Renato Borghi, presidente di Federmoda-Confcommercio, dice: «Nell’ultimo mese abbiamo registrato vendite dimezzate e mi sembra evidente che lo svuotamento degli uffici c’entri parecchio. Nulla contro lo smart working, ma dobbiamo tornare a riempire i quartieri del centro e a renderli appetibili al turismo. Che però va oltre il fatturato. E Borghi avverte ancora: «Restando tutti a casa, si dà un colpo pesantissimo alle relazioni tra le persone, che già si scambiavano mail da un ufficio all’altro, e soprattutto, cambierà il tessuto urbano».

Anche un economista come Massimo Bordignon, della Cattolica di Milano, fa notare che «lo smart working è di sicuro un’occasione, soprattutto se organizzato bene», ma potrebbe avere «un impatto sulle relazioni sociali, sulle città e sul turismo» che per l’Italia vale 40 miliardi l’anno solo dagli arrivi internazionali. E, tuttavia, c’è anche un aspetto interno al mondo del lavoro, che merita di essere sottolineato e Bordignon lo spiega così: «Alcuni primi risultati sono buoni in termini di produttività, ma come docente e ricercatore avrò sempre bisogno di vedere in faccia ricercatori e colleghi».
Del resto, chi ha frequentato un’università anglosassone sa che spesso le discussioni e le idee migliori arrivano al bar o all’ora del tè. E se in molte aziende, durante la quarantena, tanti progetti sono stati comunque portati a termine con successo, non è stato perché i team si conoscevano già? «Io non credo che una ricerca nuova possa partire da zero in smart working, a meno di rinunciare a una certa qualità» conclude Bordignon.

La preoccupazione per la qualità del lavoro emerge anche in molti studi americani sul telecommuting, fenomeno che già prima del coronavirus, negli Stati Uniti, interessava un lavoratore su cinque (soprattutto quelli della fascia più pagata) e ora è arrivato alla metà del totale. In un dossier pubblicato dai ricercatori di Brookings Institution, Il telelavoro continuerà anche dopo la pandemia, si elencano i vari pregi, ma tra i principali problemi si evidenzia il fatto che «gli aumenti di produttività non sono garantiti, specialmente se la prestazione del lavoratore è difficile da monitorare», che «l’isolamento professionale a lungo andare può incidere in modo negativo sul benessere personale come sulla qualità del lavoro» e che molte aziende stanno facendo marcia indietro. Accade persino tra i colossi di internet come Yahoo e Reddit.

Di sicuro, stare a casa allunga la vita dei beni durevoli, come le auto, e spinge a investire su piccoli miglioramenti dei propri spazi. Una ricerca di Bain & Company realizzata nei primi giorni di giugno ha registrato che il 60% degli italiani ha ritardato l’acquisto di beni durevoli. Francesco Daveri, macroeconomista della Bocconi, conferma che ristorazione e abbigliamento pagano il prezzo più alto allo smart working e suggerisce un intervento immediato sulle aliquote Iva: «Non possiamo attendere la riforma fiscale nel 2021, perché dobbiamo limitare i danni di questo 2020. Servono aliquote più basse per le auto, i vestiti, il turismo».

Il ragionamento di Daveri è che la manovra sull’Iva si può fare dal 15 luglio ed è diretta. E quando settori come l’auto perdono il 76% tra gennaio e aprile bisogna intervenire subito, se non si vuole rischiare la loro chiusura definitiva. Il premier Giuseppe Conte, invece, ha fatto la mossa più maldestra: agli Stati Generali di Villa Pamphilj ha ventilato un taglio temporaneo di alcune aliquote Iva, ma poi non l’ha varato. E così ha creato un’aspettativa che frena ulteriormente i consumi.

Che autunno ci aspetta, con il Fondo monetario internazionale che prevede un crollo del Pil italiano del 12,8%, purtroppo non è difficile da immaginare. È possibile che le aziende portino a casa, grazie allo smart working, un aumento di produttività che permetta loro di restare a galla, con grandi risparmi su affitti, immobili, servizi generali, sicurezza sul lavoro. Ma se non si riprende la domanda interna, può anche succedere che la caduta delle attività economiche bruci migliaia di posti di lavoro anche in quelle stesse aziende. Con la beffa che far chiudere migliaia di negozi e desertificare i centri storici non avrà salvato neppure lo stipendio di chi si era creduto più smart ed è rimasto a casa. In tutti i sensi.
Mai opporsi al progresso, ma forse conviene provare a gestirlo. 

Francesco Bonazzi


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