Home » Droni, la nuova era

Droni, la nuova era

Droni, la nuova era

L’evoluzione degli Uav, i velivoli senza pilota sempre più numerosi, letali, imprescin dibili. Strategici per le grandi potenze, ormai li usano anche terroristi e criminali.


«Vengo dal cartello dei chavarin di Jalisco, mi descrivono più caldo dell’inferno. Droni carichi di C4 tuonano e annientano obiettivi per il Signore di Michoacan». Dice così la canzone che i narcotrafficanti messicani del Cártel Jalisco Nueva Generación (CJNG) hanno postato su YouTube per vantarsi del loro «esercito», con droni armati di esplosivo da far piombare sulla testa dei rivali. Perché anche per loro, gli Uav («unmanned aerial vehicles», mezzi volanti senza pilota) sono l’arma in più, un vantaggio competitivo che prima non c’era, necessario a chiunque voglia dimostrare la propria forza, dai criminali centroamericani alle grandi potenze del mondo. I droni sono definitivamente entrati nella loro «seconda èra».

La definizione è di uno dei maggiori esperti europei del tema, James Rogers, storico, divulgatore, professore alla University of Southern Denmark e alla London School of Economics, che a Panorama spiega: «La prima età dei droni è stata dominata dall’Occidente e dal loro impiego soprattutto americano per affrontare le minacce globali dopo l’11 settembre 2001. Ma oggi è diverso. Una nuova fase contraddistinta dalla grande proliferazione degli Uav a ogni latitudine. Si stima ne siano dotati almeno 102 Paesi e più di 60 organizzazioni non statali».

Da quando gli Stati Uniti hanno perso il monopolio di questa tecnologia, accanto ai produttori stelle e strisce come Northrop Grumman, Lockheed Martin e Boeing, o quelli israeliani, si fanno largo svedesi, francesi, turchi, russi, cinesi, indiani, iraniani e via via si estende ad altri Paesi, tutti intenti a rafforzarsi su velivoli ormai imprescindibili per la sorveglianza, l’intelligence, la difesa, il combattimento. E che in futuro lo diventeranno ancora di più grazie al vasto sviluppo dell’intelligenza artificiale.

Le previsioni economiche ne rendono l’idea. Secondo un report di Teal Group, società di analisi di mercato in ambito aerospaziale e di difesa, nel prossimo decennio il settore toccherà i 100 miliardi di dollari di fatturato contro la decina di oggi. Il grosso per numero lo faranno i mini-droni, mentre il fatturato sarà soprattutto dovuto a quelli di grandi dimensioni, tipo i Predator o l’attesissimo «Eurodrone» (dovrebbe arrivare nel 2030) costruito da Airbus, Dassault e l’italiana Leonardo grazie a un programma da 7 miliardi.

La più grande antagonista degli americani è l’industria cinese, che aiuta il Dragone nella sua «maratona tra superpotenze» producendo droni soprattutto di classe Caihong e Wing Loong. Sono venduti in gran numero da quando il presidente Joe Biden ha deciso di concedere armi made in Usa soltanto agli alleati. Così Pechino vola nell’export grazie a un minor prezzo, consegna rapida e pagamenti facilitati (talvolta vige il solito sistema: non denaro ma risorse naturali). Tra le decine di acquirenti (dal Myanmar all’Iraq, dai Paesi arabi al Pakistan) le ultime commesse sono state messe a segno in Algeria (entro la fine del 2022 il numero dei suoi Caihong sarà salito a 60), ed Egitto.

«C’è un legame diretto tra lo scenario economico impostato da Pechino intorno al mondo e la vendita di questi velivoli» dice ancora Rogers. «Una vera e propria “diplomazia dei droni” in virtù della quale, accettando di far parte della sua Belt and road initiative hai accesso agli Uav. Così stringendo ulteriormente i legami». Tra questi Paesi c’è la Serbia, che avrebbe speso 20 milioni di dollari per sei Casc CH-92. Droni cinesi nel cuore dell’Europa.

Altro attivissimo attore è la Turchia, che su questo tema gioca da superpotenza. I suoi droni – a cominciare da quello tattico Bayraktar TB2 – sono stati venduti a 13 Paesi e presto potrebbero aggiungersene altri nove. Droni low cost ma efficaci, che rappresentano un ottimo business, ma anche un modo per estendere l’influenza del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Il miglior marketing l’ha fatto sul campo, schierandoli con successo in Siria e in Libia (li hanno forniti al governo di Fayez al-Sarraj, mentre quelli cinesi arrivavano a sostegno del generale Haftar). Decisivi sono stati nel favorire l’Azerbaijan nella guerra con l’Armenia per il Nagorno-Karabakh (insieme a quelli russi e israeliani), mentre in Etiopia hanno influenzato grandemente la guerra tra Addis Abeba e le forze autonomiste del Tigray. Infine l’Ucraina, dopo averne già acquistati, si appresta ad avviare una propria produzione di Bayraktar TB2 per contrastare un’eventuale invasione russa.

Giocoforza, anche i più remoti Paesi si sono oggi convinti dell’importanza dei droni per soverchiare il nemico. Come sostiene Hafed Al-Ghwell, docente al Foreign Policy Institute della John Hopkins University, i droni «permettono anche a forze piccole e medie di ottenere superiorità aerea, una volta possibile soltanto alle maggiori potenze. E questo mentre una Washington disinteressata, una Nato incoerente e un’Europa avversa ai conflitti hanno lasciato che altri Paesi combattessero in modo non convenzionale e ben oltre i loro confini, senza intervenire».

Nella seconda età dei droni, l’industria bellica progredisce rapidamente creando nuovi modelli sempre più avanzati e con le dimensioni più varie. Piccoli sono i droni «kamikaze», o «killer drones», da qualche esperto definiti come una rivoluzione al pari dell’avvento delle mitragliatrici. Non sparano missili ma lo sono essi stessi, guidati da remoto o inserendo le coordinate Gps del target, più o meno come si fa con Google Maps. E costano solo qualche centinaio o migliaio di dollari, contro i 150 mila di un missile lanciato da un Predator.

Gli iraniani sono maestri in questo ambito. I «kamikaze» di Teheran sarebbero stati usati per attaccare il mercantile israeliano Mercer Street il luglio scorso. In gennaio, il bombardamento dell’aeroporto di Abu Dhabi rivendicato dai miliziani sciiti Houthi è stato fatto con i Sammad-3, killer drones rivendicati come di fattura artigianale, anche se gli analisti hanno rilevato componenti iraniane. Costano pochi dollari e possono portare fino a 18 chilogrammi di esplosivo per 1.500 chilometri. Le minacce all’Expo di Dubai sono prese molto sul serio.

«Il Medioriente è un’area chiave per la proliferazione dei droni, anche se rudimentali» dice Rogers. «Ho potuto ispezionare quelli degli Houthi, ho visto come trasformano un po’ di materiale bellico in Uav per trasportare proiettili e bombe. Talvolta per farli volare utilizzano tecnologia militare, più spesso sfruttano quella di uso comune in commercio. Motori europei, elettronica cinese, oggettistica usata per hobby che nelle loro mani diventa facilmente letale». Un po’ come fanno i narcos citati all’inizio. Droni commerciali che, se armati, diventano minacce imprevedibili. Robert J. Bunker e John P. Sullivan lo spiegano nel libro Criminal drone evolution: «Se prima erano usati dai governi, ormai sono un elemento standard nell’arsenale di gruppi terroristi, rivoltosi, guerriglieri. Mentre l’accostamento a qualunque organizzazione criminale è sempre più frequente nelle cronache».

«Dobbiamo tenerlo a mente» prosegue l’esperto della London School of Economics. «Nei negozi se ne trovano di sempre più potenti e facili da utilizzare. È il mercato che impone di far sempre meglio: creare droni che volano più lontano, più in alto, più velocemente, e trasportano carichi più pesanti. Ma quelle tecnologie finiscono nelle mani di qualunque organizzazione canaglia. I cartelli della droga, certo, ma anche l’Isis e Boko Haram. Organizzazioni terroriste in territori lontani, ma dal momento che presto arriveranno in commercio droni con la capacità di volare per migliaia di chilometri, potrebbero trasformarsi in minacce dirette agli Stati Uniti e assai più facilmente all’Europa». Regolamentare non è facile. «L’unica cosa che si può fare è cercare di intervenire sulle future generazioni di droni commerciali. Ma il progresso tecnologico c’è stato e fermarlo non è più possibile. I droni sono e saranno una componente fondamentale di qualunque conflitto».

© Riproduzione Riservata