Squilla il telefono ed è il solito numero sconosciuto, una sequenza di cifre non memorizzate in rubrica. Sarà uno scocciatore o qualcosa di rilevante? Nemmeno il tempo di chiedercelo che un assistente digitale ha già risposto al nostro posto, per capire chi è e, soprattutto, cosa vuole. Se è pubblicità, la solita offerta imperdibile a prezzo scontato, il nostro segretario virtuale declina con gentilezza e conclude la conversazione; se è importante, per esempio è un’agenzia viaggi che tenta d’informarci della cancellazione di un volo, possiamo prendere la telefonata. Il meccanismo funziona così: sul display dello smartphone leggiamo in tempo reale la trascrizione della conversazione, in modo da intervenire prontamente in caso di necessità. Non è uno scenario avveniristico, l’antipasto di un futuro in cui avremo finalmente trasformato le macchine in maggiordomi solerti e sapientoni. Si tratta di una delle tante funzioni già di serie nei nuovi smartphone della famiglia Pixel 8 di Google, appena presentati.
Sono basati sull’intelligenza artificiale, che così esce dalle domande digitabili sulla tastiera di un computer (ChatGpt è ormai uno di noi) per entrare negli oggetti di ogni giorno: telefoni, orologi, auricolari, visori. Tutto ciò che teniamo addosso per provare a scacciare qualche complessità di troppo da una stressante e intasata vita quotidiana. Gli esempi, sempre in casa Google, si sprecano: se registriamo un video con un bambino che chiama la mamma e un cane abbaia lì accanto, in un istante possiamo eliminare l’audio dell’animale molesto conservando, a eterna memoria, le pure e preziose parole del piccolo. Lo stesso accade se registriamo una dichiarazione appassionata, magari una proposta di matrimonio, in un luogo ventoso: la promessa d’amore eterno non andrà perduta a causa dei capricci del meteo. Va da sé, l’intelligenza artificiale è in grado di separare il disturbo dall’essenziale, sa dividere il buono dallo scarto. Così, in una foto di gruppo, eccola proporre in automatico lo scatto migliore combinandone molti, evitando le immagini da cestinare, o buffe, in cui qualcuno tiene gli occhi chiusi, qualcuno guarda da un’altra parte.





Ha senso, ma solo in parte, obiettare che sia un’alterazione della realtà, uno smantellamento della spontaneità. In fondo, l’obiettivo era immortalare un ricordo condiviso piacevole. Inoltre, sempre di serie nei nuovi smartphone di Google, c’è il fotoritocco muscoloso, con una sovrabbondanza di superpoteri: si possono cancellare interi dettagli da un’immagine, spostare elementi, giocare con sfondi e primi piani. Prima era un privilegio di grafici esperti, ora è una virtù di massa. Della teoria raccontiamo la pratica: abbiamo la foto di nostro figlio che salta su una pedana sotto un canestro. Selezioniamo il trampolino con le dita, l’Ai lo cestina in un baleno; come effetto, sembrerà che il ragazzo stia volando. Inutile storcere il naso, le pubblicità finte con la copia digitale di attori di Hollywood inconsapevoli, manovrati da aziende senza scrupoli (citofonare Tom Hanks) sono cronaca quotidiana. L’intelligenza artificiale tenta di essere utile, la malizia sta nell’uso distorto che se ne fa.
Ecco allora gli orologi a fin di bene, chiamiamoli così, firmati Google o Samsung: stanno perennemente in ascolto dei respiri della nostra pelle, e del nostro cuore, per trarne deduzioni significative. Si accorgono se siamo nervosi, stressati, insonni o fuori forma. Un algoritmo è decisamente più pervicace di un dottore che ci visita di sfuggita; l’hi-tech ci tampina, col nostro consenso – mettersi al polso un computer in miniatura è l’apoteosi di una palese adesione – e dà consigli mirati per ritrovare la calma, riposare a meraviglia, non mandare tutti a quel paese nonostante la tentazione sia vividissima. Quanta saggezza strizzata in un quadrante.
Sempre gli ultimi smartwatch Samsung, dopo l’attività fisica, dicono quanta acqua bere per reintegrare i liquidi persi, mentre gli auricolari di ultima generazione vanno oltre la semplice lettura delle notifiche del telefono. Orchestrano inganni supremi, distorsioni per difetto: analizzano l’audio di sottofondo e lo cancellano. Così, non solo sentiamo benissimo il nostro interlocutore pure se sussurra mentre un tram sferraglia: lui, a sua volta, ci percepirà in una stanza più cheta di un monastero di clausura, anche se siamo su un treno affollato o nei paraggi di un concerto.
Si esagera, ma la traiettoria è questa: le cuffiette di Sony, per dire, capiscono se siamo fermi o in movimento per ottimizzare la resa sonora. Non bastava il dottore al polso, ecco il deejay nella testa. Meglio scherzarci su per evitare di urlare alla solita deriva distopica. Ai rischi di nuove dipendenze dalle macchine, di pigrizie attuali e potenziali (tanto penserà a tutto l’Ai), alla possibilità di figuracce clamorose: non siamo convinti che il vostro capo, il quale ha pieno diritto di chiamarvi da un numero privato o sconosciuto, possa essere felice di dover interagire con un assistente vocale prima di parlare con voi. Gli ultimi visori proiettano in mondi paralleli o portano elementi digitali, facendoli apparire autentici, dentro quello attuale. La vita aumentata dall’intelligenza artificiale sembra una realtà mista: un frullato d’intangibile e di concreto. Se sia una traiettoria auspicabile o evitabile, è lasciato al nostro libero arbitrio: il tasto off, quello sì, c’è sempre.