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Black Mirror, gli episodi migliori (e peggiori) della nuova stagione

Black Mirror, gli episodi migliori (e peggiori) della nuova stagione

La classifica – dal peggiore al migliore – degli episodi della settima stagione di Black Mirror

Dal 10 aprile torna su Netflix uno dei titoli seriali più iconici degli ultimi anni: Black Mirror, che approda alla sua settima stagione con sei nuovi episodi, tra cui spicca anche un attesissimo ritorno – il primo sequel nella storia della serie – che riprende l’universo fantascientifico di USS Callister, raccontato per la prima volta nella quarta stagione.

Guardando questa nuova tornata di episodi, soprattutto dopo la tiepida accoglienza riservata alla stagione del 2023, emerge fin da subito che ormai Black Mirror non è più una serie sul futuro. È diventata una serie sul presente.

Se nelle sue prime incarnazioni la creatura distopica firmata Charlie Brooker si era distinta per l’inquietante capacità di anticipare i rischi della tecnologia con storie visionarie e solo apparentemente lontane, oggi Black Mirror colpisce non tanto per ciò che immagina, quanto per ciò che riconosce nella realtà attuale. Proprio per questo, è forse la stagione più realistica, e quindi, la più inquietante.

Black Mirror, gli episodi migliori (e peggiori) della nuova stagione
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Ecco allora la nostra classifica degli episodi di Black Mirror 7: dal meno riuscito al migliore.

6. “Plaything” (episodio 4)

Un tuffo nel cyberpunk d’altri tempi, Plaything apre su un 2034 livido e disilluso: un uomo anziano e spettinato – Cameron, interpretato da un magnetico Peter Capaldi – viene arrestato mentre tenta di rubare una bibita in un minimarket. Ma dietro quel piccolo gesto si cela una storia lunga quarant’anni, e un segreto inquietante legato a un omicidio mai risolto.

Durante l’interrogatorio, Cameron rievoca la sua giovinezza: negli anni ’90 era un giornalista di videogiochi, interpretato in flashback da Lewis Gribben. Un giorno viene convocato da Colin (Will Poulter), uno sviluppatore geniale e disturbato, per provare un software chiamato Thronglets. Apparentemente innocuo – un gioco in cui si accudiscono adorabili creaturine digitali – Thronglets nasconde qualcosa di più profondo. Durante un trip psichedelico, Cameron scopre di poter comprendere i suoni che queste creature emettono. Da lì inizia la sua missione: costruire per loro un mondo ideale, una micro-utopia in codice.

Ma l’utopia si incrina. I Thronglets iniziano a ribellarsi, a rifiutare la visione del loro creatore. E così, quello che era partito come un esperimento sul gioco e la cura si trasforma in una riflessione disturbante sul controllo, sull’ego creativo e sul fallimento della cooperazione. È qui che l’episodio svela il cuore nero del pensiero di Charlie Brooker: la convinzione che, di fronte alla possibilità di costruire un ordine condiviso, l’essere umano finirà inevitabilmente per sabotarlo.

5. “Eulogy” (episodio 5)

Eulogy si affida al talento di Paul Giamatti per dare corpo a un racconto intimo e malinconico, sospeso tra memoria, lutto e tecnologia. Giamatti interpreta Phillip, un uomo solitario e cinico – un ruolo che sembra scritto apposta per lui, nella scia dei personaggi che ha reso memorabili in The Holdovers, Sideways e American Splendor.

La storia prende il via quando Phillip viene invitato a partecipare a un “memoriale immersivo” per Carol, una ex fidanzata da tempo scomparsa con cui aveva condiviso un’intensa relazione giovanile nei primi anni 2000. Il processo è semplice, almeno in apparenza: riceve via drone un kit che include un dispositivo indossabile e una guida IA (interpretata da Patsy Ferran), incaricata di aiutarlo a navigare tra vecchie fotografie e ricordi condivisi.

Ma per Phillip, che aveva deliberatamente cancellato ogni traccia visiva di Carol dopo la rottura, il viaggio nella memoria è tutt’altro che semplice. Rivivere quei momenti – quando erano due punk artisti che vivevano in uno squat di Brooklyn, prima dell’era degli smartphone – riapre vecchie ferite, ma anche nuove consapevolezze. Per anni ha dato la colpa a Carol per la fine della loro storia, ma i frammenti del passato suggeriscono che le cose potrebbero essere andate diversamente.

4. “Bête Noire” (episodio 2)

In questo thriller psicologico a combustione lenta, Maria (Siena Kelly) è una promessa emergente in un’azienda di sviluppo alimentare, ma la sua carriera prende una svolta inquietante quando una vecchia compagna di scuola, Verity (Rosy McEwen), entra a far parte del team. Non sono mai state amiche: Maria era la ragazza popolare, mentre Verity la classica nerd appassionata di informatica. Ma adesso Verity sembra aver dimenticato ogni timidezza adolescenziale. Da quando è arrivata, Maria inizia a confondersi sempre più spesso, commettendo errori dalle conseguenze via via più pesanti. “Bête Noire” potrebbe essere descritto come una versione contemporanea e fantascientifica di Gaslight — anche se non raggiunge la stessa profondità. Più che un enigma tecnologico, lascia il segno come una sorta di monito contro il bullismo.

3. “USS Callister: Into Infinity” (episodio 6)

Di giorno Robert Daly (Jesse Plemons) era il timido programmatore dietro Infinity, un popolarissimo videogioco online multiplayer, nascosto nel suo ufficio mentre il socio James Walton (Jimmi Simpson) si prendeva tutta la gloria, incitandolo a sfornare aggiornamenti sempre più velocemente. Ma di notte, Robert si rifugiava nella sua versione privata di Infinity, modificata per ricreare l’universo della sua serie TV preferita, un omaggio in stile Star Trek, dove vestiva i panni del comandante onnipotente di una sfortunata squadra di cloni senzienti — replicati dai suoi colleghi, incluso Walton, costretti a vivere come prigionieri del suo delirio di potere.

Tutto cambia quando carica per errore il DNA di Nanette Cole (Cristin Milioti), una nuova dipendente che capisce il gioco malato di Daly e riesce a liberare la USS Callister dal suo controllo, conducendo l’equipaggio verso la libertà nell’universo online di Infinity. La loro fuga, per di più, causa la morte di Robert nella vita reale.
Questa era la premessa di USS Callister, uno degli episodi più acclamati della quarta stagione di Black Mirror — un tributo alla fantascienza classica che al contempo criticava la rabbia tossica dei cosiddetti “guerrieri da tastiera”.

La settima stagione si chiude con un seguito degno, sebbene meno preciso nel bersaglio, che vede Nanette promossa a capitano. Ma le cose non vanno lisce: Infinity ora conta 30 milioni di giocatori. “Quando eravamo intrappolati nel computer di Daly, avevamo a che fare con un solo sociopatico,” osserva Nanette. “Ora l’universo ne è pieno.”
In più, l’avidità di Walton ha spinto l’equipaggio a razziare i giocatori per ottenere crediti vitali alla loro sopravvivenza. Nel mondo reale, intanto, un giornalista indaga sulle pratiche illegali di clonazione del DNA di Robert, mentre Walton cerca disperatamente di insabbiare la storia.

Il fascino nerd di questo micro-franchise rimane intatto, e il sequel riesce persino a essere più divertente dell’originale. Into Infinity è molto più di una semplice operazione di fan service: è una storia che cammina con le proprie gambe, esplorando nuove direzioni senza dimenticare le radici che l’hanno resa speciale.

2. “Common People” (episodio 1)

Black Mirror dà spesso il meglio quando esplora come la tecnologia possa sconvolgere le nostre relazioni (basti pensare al successo di San Junipero). Il primo episodio della settima stagione, Common People rappresenta un solido ritorno alle origini, con Rashida Jones e Chris O’Dowd nei panni di una coppia sposata tenera e credibile. Lei insegna, lui lavora come metalmeccanico. I soldi sono pochi, ma sperano di riuscire a mettere da parte abbastanza per riprovare ad avere un bambino, dopo aver già affrontato almeno un aborto spontaneo.

Poi Amanda (Jones) sviene durante una lezione. In ospedale, Mike (O’Dowd) scopre che sua moglie, ora in coma, ha un tumore al cervello considerato inoperabile dalla medicina tradizionale. Ma c’è una speranza: una startup biotecnologica offre un trattamento sperimentale chiamato Rivermind. Come spiega con impeccabile freddezza la rappresentante dell’azienda (Tracee Ellis Ross), l’intervento è gratuito. Tuttavia, c’è un abbonamento mensile da pagare, e il costo rischia di mandare in crisi il loro già fragile bilancio familiare. In più, Amanda dovrà dormire un paio d’ore in più ogni giorno, per consentire ai server di “riprendersi”. Mike accetta senza pensarci troppo: 300 dollari al mese sembrano un piccolo prezzo da pagare per salvare la donna che ama. Ma naturalmente non è tutto così semplice.

Il costo dell’abbonamento inizia a salire. E non è solo una questione economica: Amanda comincia improvvisamente a emettere messaggi pubblicitari involontari, mettendo a rischio la sua vita sociale e la carriera. L’unico modo per fermare questo incubo è acquistare un costosissimo upgrade da Rivermind Common a Rivermind Plus.

Il parallelismo con i livelli di abbonamento di Netflix non è proprio sottile: Brooker, mentre produce satira tecnologica per uno dei giganti globali dell’intrattenimento, lancia qualche frecciata. Ma Common People va oltre il semplice riferimento al modello freemium. Tocca corde ben più profonde: la disparità nell’accesso alla sanità, la trasformazione della sopravvivenza in un lusso per pochi, e quella sensazione inquietante che i progressi scientifici, invece di democratizzare i benefici, non facciano altro che amplificare le disuguaglianze.

1. “Hotel Reverie” (episodio 3)

Keyworth Studios, una gloriosa ma decadente casa di produzione d’epoca, è in crisi. La sua direttrice (Harriet Walter) si lascia sedurre dalla proposta di Redream, una tecnologia di intelligenza artificiale rivoluzionaria. Insieme alla brillante — e spietata — rappresentante dell’azienda (Awkwafina), decide di riportare in vita il vecchio capolavoro della Keyworth, Hotel Reverie, una pellicola che omaggiava lo stile di Casablanca, ma questa volta con una star dei giorni nostri. Con i vari Ryan Reynolds e Gosling ormai fuori portata, la scelta ricade su Brandy Friday (Issa Rae), un volto noto di Hollywood, stanca di essere relegata ai soliti ruoli di “vittima nobile” o di semplice “spalla sexy”. Finalmente, per lei si apre la possibilità di interpretare il protagonista, un ruolo originariamente pensato per un uomo bianco.

Quello che Brandy ancora non sa è quanto il ruolo sarà… letterale. Redream collega la sua coscienza, in puro stile Matrix, a una riproduzione virtuale del film, dove interagisce con repliche AI dei personaggi originali, programmati per restare fedeli alle performance d’epoca, finché lei seguirà alla lettera la sceneggiatura. (Meglio non soffermarsi troppo sui dettagli tecnici di questo processo.)
Ma c’è un imprevisto: qualcosa nella personalità di Brandy accende una scintilla inattesa nell’interesse amoroso del suo personaggio (interpretato da Emma Corrin), scatenando un effetto domino che manda il progetto fuori controllo.

I grandi servizi di streaming raramente concedono in licenza film più vecchi di qualche decennio. E trovare ruoli da protagonista per donne e persone di colore, anche nelle produzioni più prestigiose, è ancora un’impresa. A complicare ulteriormente lo scenario c’è l’avanzata dell’intelligenza artificiale, con promesse discutibili che rischiano di svuotare il cinema della sua anima umana. Un episodio di Black Mirror che affrontasse questa escalation di crisi hollywoodiane era inevitabile. Hotel Reverie risulta sorprendentemente carico di speranza, sottolineando con forza che è impossibile sradicare l’arte dalle sue radici profondamente umane. Un messaggio potente, con quel pizzico di nostalgia che solo i grandi film sanno evocare.

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