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Perché Adolescence piace (ma non ci renderà migliori)

Perché Adolescence piace (ma non ci renderà migliori)

La miniserie Adolescence è un capolavoro e sta facendo molto parlare di sé, ma se ci si limiterà al consumo e all’emotività sarà un’occasione persa per l’intera società.

C’è qualcosa di profondamente doloroso nel modo in cui oggi consumiamo storie come Adolescence o Il ragazzo dai pantaloni rosa. Guardiamo, commentiamo, magari ci emozioniamo, ma poi? Poi tutto evapora. Le cicatrici dei personaggi restano solo su di loro, non su di noi. Non permettiamo alla tragedia di attraversarci, di cambiarci, di purificarci cioè renderci migliori con il pensiero, il ragionamento, il confronto. Ma non era questo il senso della catarsi?

I greci sapevano che il dolore visto in scena non serviva solo a commuovere, ma a trasformare. La tragedia non era intrattenimento: era un rito. Lo spettatore viveva il tormento dell’eroe perché, in qualche modo, quel tormento era anche il suo. Tutta Atene ha guardato Antigone a teatro e nei giorni successivi tutti hanno discusso sulle decisioni prese, sugli atteggiamenti dei diversi personaggi, trovando ragioni e torti di volta in volta in questo o in quell’altro protagonista, sentendosi l’uno e l’altro, e poi ancora l’opposto. Allo stesso modo, guardare Edipo accecarsi non era uno shock fine a sé stesso, ma un’esplosione di verità che scavava nell’anima. 

E oggi? Oggi il dolore della finzione viene trattato come un’estetica, un’emozione momentanea, un effetto speciale dell’anima. Adolescence è un capolavoro cinematografico, giusto parlarne in questi termini, ci mancherebbe. Ancora, Adolescence tocca temi incandescenti e cupi: la violenza incomprensibile e fatale di cui sono capaci anche i più piccoli, le vite parallele vissute sotto lo stesso tetto, lo strisciante ruolo dei social e i pericoli del gruppo dei pari. Lo stesso fa Il ragazzo dai pantaloni rosa: stavolta la violenza è su se stessi che ingiusta oltre che inaccettabile, e ancora una volta è una situazione e una tragedia figlia di un mondo oscuro, taciuto, scacciato fino all’esplosione, o all’implosione. Il ragazzo dai pantaloni rosa racconta il dolore della non appartenenza e dell’essere spezzati dalla società, ma quanti spettatori lasciano che questo dolore diventi consapevolezza, cambiamento?

Sono storie che mettono a nudo la solitudine, l’abbandono, il disperato bisogno di essere visti, eppure chi guarda spesso si limita a un post sui social, a un’analisi fredda. Non siamo abituati a farci scuotere dalle storie fino a mettere in discussione una situazione di vita, una quotidianità malsana. La storia è letta, o vista, ma non trova spazio per attecchire profondamente: il rischio è che il mondo non dia spazio all’arte che non può essere ridotta a cassa di risonanza emotiva, a lacrima da salotto: l’arte, in questo caso cinematografica, scuote, smaschera e compie il suo percorso se diventa strumento di dibattito, di confronto e quindi di crescita.

La catarsi è diventata debole perché ci siamo abituati a filtrare il dolore con il distacco. Succede all’ennesima notizia di un bombardamento, di un attentato, di un incidente. Succede quando scrolliamo le storie dei social che mostrano immagini tremende di infortuni, cadute, decapitazioni, morti sulle strade in successione, tra un balletto e una ricetta, tra Prodi e Donnarumma. Tutto insieme, un’emozione dopo l’altra, senza riflessione, senza pausa, senza pace. 

Anche per le atrocità, va così: guardiamo, soffriamo un attimo e poi passiamo avanti, come se il dolore fosse un’ombra che possiamo scrollarci di dosso, allergici al dolore e al suo attraversamento. Ma le storie non esistono per lasciarci intatti, anche se sono quelle degli altri. Esistono per sporcarci le mani, per farci tremare, per lasciarci con domande scomode. Se non siamo disposti a sanguinare un po’ con loro, allora forse non stiamo davvero guardando.

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