In Polinesia, il piccolo arcipelago di Tuvalu sta fisicamente scomparendo, sommerso dall’oceano che sale. Ma c’è una possibilità di una sua «seconda vita», all’interno del metaverso. Ecco il progetto per preservare la memoria e l’identità di una nazione.
Il destino della leggendaria isola di Atlantide incombe sullo stato di Tuvalu. Cinquant’anni, forse più forse meno, e poi questo piccolo arcipelago polinesiano sparirà sotto il mare. I suoi cittadini lo sanno. Il senso della fine li accompagna dal mattino alla sera. Di quella dozzina di migliaia che non è emigrata (erano circa 10 mila), un quinto ha dovuto spostare l’abitazione e tutto ciò che aveva verso luoghi più sicuri, al riparo da mareggiate che il riscaldamento globale ha reso sempre più violente. Case, chiese, negozi e luoghi di ritrovo ora sorgono ammassate al centro delle isole.
Di tanto in tanto l’acqua marina li raggiunge anche lì, penetrando il terreno e costringendoli a trascorrere intere giornate con l’acqua al ginocchio. Non ha dato tregua nemmeno ai defunti, spazzando via interi cimiteri e costringendo i vivi a costruire le loro tombe accanto alle abitazioni. Sono le stesse infiltrazioni salate che hanno fatto crollare la produzione di noci di cocco e dei tuberi di taro gigante e reso l’acqua dolce un bene raro.
Tuvalu si trova nel mezzo dell’oceano Pacifico tra le Hawaii e l’Australia. È un puntino a occidente dell’Australia, anzi, nove puntini, che corrispondono a quattro isole coralline e cinque atolli, per un totale di 26 chilometri quadrati a una massima altitudine di quattro metri dal livello del mare, che sale rapidamente: secondo la National Oceanic and Atmospheric Administration, da 1,4 millimetri all’anno per la maggior parte del ventesimo secolo ai 3,6 millimetri annui dal 2006 al 2015, fino a valori previsti ancora in aumento nell’attuale decennio. L’Ipcc (Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) stima che crescerà da 40 e 63 centimetri entro il 2100. Oltre alle difficoltà materiali per soddisfare i bisogni quotidiani, gli abitanti di Tuvalu devono affrontare le difficoltà dello spirito che nascono dalla necessità di convivere con sentimenti di paura per il futuro, con il senso della precarietà e dell’effimero, con il timore della perdita dell’identità.
«Dopotutto, basta guardarsi intorno e la fine è scritta su ogni cosa» ha dichiarato a The Guardian un cittadino 28enne di Tuvalu che ora lavora per un’organizzazione umanitaria sul riscaldamento climatico. Man mano che le cose scompaiono se ne va quel mondo di valori condivisi che ha reso Tuvalu una nazione, e che risalgono alla civiltà cosiddetta Lapita, i cui più antichi siti sono del 1500 a.C. Più esteso solo di quattro Stati al mondo, Città del Vaticano, Monaco e l’isola polinesiana di Nauru, Tuvalu è membro delle Nazioni Unite dal 1999, dopo aver raggiunto l’indipendenza dall’Inghilterra nel 1978. Nel 2021, in occasione della Cop 26 di Glasgow, la ventiseiesima conferenza delle parti nell’ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, fece il giro delle televisioni del pianeta una scena insolita: il ministro degli Esteri di Tuvalu Simon Kafe si presentò in conferenza stampa sulla riva del mare, con l’acqua che gli arrivava alle ginocchia, lanciando un grido di allarme, «Stiamo annegando», mentre piccole onde gli sfioravano la giacca.
Ora, di fronte all’inabissarsi dell’arcipelago ormai certo, anche alla luce del sostanziale inconcludenza delle recenti conferenze sul clima che dovevano contenere il surriscaldamento terrestre a un grado e mezzo, il dipartimento degli Esteri di Tuvalu ha messo a punto un insieme di iniziative per la salvaguardia della memoria dello Stato che vanno sotto il nome di «Il futuro adesso». È il punto tre del documento a colpire per la profondità dell’azione che viene prospettata: le autorità si propongono di creare, a futura memoria, una nazione digitale attraverso un processo di digitalizzazione. Tuvalu esisterà nel metaverso, il mondo virtuale in 3D basato sulla connessione social; man mano che ogni isola dell’arcipelago, ogni spiaggia, ogni albero e tutto quanto oggi risulta emerso ma non lo sarà domani, verrà ricostruito digitalmente con l’aiuto di dettagliate immagini satellitari, fotografie e filmati effettuati con droni.
Sono tutti strumenti capaci di catturare dettagli quali la forma della sabbia, lo spostamento delle correnti, gli atolli corallini, le ombre delle palme, i pesci variopinti che affiorano dalla laguna. Una bellezza che non sarà più reale nel senso che intendiamo adesso, ma sarà «reale nel virtuale» o un «virtuale che era reale» a seconda delle prospettive. Fa parte del progetto «Il futuro adesso» pure l’idea di di trasferire su uno spazio simile a iCloud tutti i servizi al cittadino, così come i servizi consolari e amministrativi. E anche quello di assicurarsi che, nel momento in cui Tuvalu non esisterà più fisicamente, ne vengano conservati i confini marittimi per come sono oggi sotto la legge internazionale. Così, se il progetto diverrà realtà, le future generazioni continueranno a tramandarsi come una nazione, non soltanto perché tradizioni, conoscenze ancestrali e confini fisici saranno digitalizzati, ma anche perché i cittadini potranno sempre interagire gli uni con gli altri nella dimensione del metaverso, preservando linguaggi e tradizioni. Non è un aspetto di poco conto. Alla perdita di diversità culturale e spirituale in tutti i settori delle cose umane non è dato il giusto rilievo, al suo corrispettivo nella sfera delle scienze della vita, la perdita di biodiversità, viene invece destinato un grande risalto, che certamente merita.
I mass media ci aggiornano ogni giorno sulle estinzioni di specie viventi o delle varietà agroalimentari minacciate dagli Ogm, ma non si soffermano sulla diversità in pericolo che riguarda la sfera umana, quella delle culture, dei luoghi, dei modi di vivere e di pensare. Il metaverso potrebbe preservare tutto ciò: sarà come un «multiverso», cioè una moltitudine di metaversi ognuno gestito da una singola compagnia e con un certo grado di interoperabilità. Quello di Tuvalu lo possiamo immaginare come uno spazio a sé stante, in tre dimensioni, a cui i cittadini accedono con speciali visori dallo schermo di un computer mentre si trovano in altri luoghi (Australia e Nuova Zelanda con più probabilità). Nel loro antico mondo ormai digitalizzato saranno rappresentati da un «avatar» che ha la loro specifica identità, possiede il loro denaro, e passa da un’esperienza a un’altra come lavorare, acquistare, chiacchierare con un amico.
L’alternativa potrebbe riguardare altri luoghi della Terra. «Se entro il 2100 il livello del mare si alzasse come previsto dai modelli dell’Ipcc, ci sarebbero almeno 250 milioni di persone colpite, in tutti i continenti» afferma Gerd Masselink, professore di Geomorfologia costiera all’Università di Plymouth, nel Regno Unito. «Oltre a Tuvalu, arcipelaghi come Kiribati nel cuore del Pacifico. In Cina, 43 milioni di persone a rischio nelle località costiere, 32 milioni in Bangladesh. E la lista potrebbe continuare».