Morire per un social con i genitori senza difese
La Rubrica «Lessico Familiare»
Morire a 10 anni, chiusa in un bagno, strangolata da una cintura che si era girata intorno al collo per partecipare ad un gioco mortale sulla piattaforma TikTok, è una notizia che non si può leggere.
Nemmeno al tempo del Covid, dove l'isolamento sociale ha portato i nostri ragazzi ad avere come unico interlocutore lo smartphone e dove l'ipocrisia sociale perbenista, all'indomani della tragedia, si lancia in retoriche dissertazioni su cosa i genitori o la società avrebbero dovuto o non dovuto fare per evitare una tragedia come questa.
La verità è che troppo goffamente la politica ha snocciolato regole, diventate subito troppo vecchie e con maglie troppo grandi, per tentare di arginare gli abusi e le distorsioni di questo sistema che muta pelle in continuazione.
La Rubrica: Lessico Familiare
Sì perché i provvedimenti anche adottati dall'Italia per uniformarsi al Regolamento Europeo per la protezione dei dati personali, entrato in vigore nel 2018 e che ha stabilito a 16 anni l'età minima per esprimere il consenso al trattamento dei propri dati personali, non risolvono certo il problema.
Significa solo, in altre parole, che per iscriversi ad un gruppo social in Italia non puoi avere meno di 14 anni, così come prescritto anche dalla legge sul cyberbullismo del 2017.
Ma oltre all'età minima prescritta nessuno si preoccupa di imporre regole ferree per il controllo di chi effettivamente si iscrive ai gruppi social.
Come se non fosse immaginabile che il minore, spesso bambino, digiti "acconsento" anche senza avere l'età.
Questo è il punto: i nuovi regolamenti nazionali ed internazionali fingono di arginare i problemi ma - di fatto - non si spingono più in là di qualche regola demagogica.
Le soluzioni ci sarebbero però, guarda caso, nessuno ne parla.
Se infatti è vero che oggi, per attivare un sistema di allarme, la compagnia telefonica, attraverso un semplicissimo procedimento di identificazione, ti impone di mettere la tua faccia davanti allo Smartphone con la carta d'identità in mano, prendendosi 24 ore di tempo per il controllo dei dati prima di procedere, per quale motivo tale procedura non viene imposta anche per i social?
Voglio vederlo un bambino di 9 o 10 anni con la carta d'identità in mano che riesce a raggirare il controllo.
Perché allora criticare internet e il mondo digitale se, al contrario, gli strumenti di controllo per le iscrizioni già ci sarebbero ma non vengono imposte?
Antonella non doveva essere lì. E non centrano i genitori o l'isolamento sociale che ha favorito il cortocircuito emotivo dei nostri ragazzi.
Il pericolo che viviamo, con i nativi digitali, in una società dove il mondo 'vero' è stato sostituito da pixel e schermi, è serio e deve essere affrontato in modo concreto senza dare false promesse di soluzioni politiche che però hanno il sapore amaro della lusinga inutile.
Nel mondo 2.0 abbiamo purtroppo a che fare con schiere sempre più numerose di influencer, youtuber, eroi di TikTok o di altri portali che, in nome di un clik in più, esprimono contenuti discutibili e altamente diseducativi, rischiosi in molti casi, disinteressandosi delle conseguenze e dei pericoli di emulazione.
Non sto parlando dei criminali della blue whale, quel gioco orrorifico che ha condotto molti giovani al suicidio e per il quale sono fioccate condanne di istigazione, ma di video cliccabili da chiunque sui principali canali internet.
Sto parlando altresì di compagnie virtuali che avvincono i ragazzi, e i bambini di ogni età, senza avere reale cognizione di chi sieda dall'altro capo della tastiera, spesso mitomani o perversi protetti dall'anonimato dello strumento attraverso cui operano.
Oggi il virtuale ha sostituito il reale, i cellulari sono un'estensione naturale degli arti e i messaggi ci raggiungono al polso, domani persino sulle lenti degli occhiali per poi arrivare dritti al cervello: i nostri figli vivono quel mondo e siamo stati noi, fatalmente, a immetterli.
E siamo noi ad avere il dovere di trovare il modo per bloccare l'ingresso a chi non è capace di discernimento.
E' per questo che si deve esigere un accesso rigorosamente controllato e solo le compagnie telefoniche e le grandi piattaforme digitali possono creare "veri" strumenti di controllo.
Perché anche i più attenti o intransigenti genitori nulla possono fare quando il figlio va a scuola o si trova in compagnia di altri coetanei, dove almeno uno di questi è sempre dotato di cellulare per condividere ciò che la rete trasmette.
Viviamo perciò sull'orlo del precipizio e non possiamo sottrarci, ragione per la quale non è possibile imputare alcunché ai genitori di Antonella, al cui posto avrebbe potuto essere chiunque.